“In Prato ancora vicino a Fiorenza dove aveva alcuni parenti, in compagnia di fra’ Diamante del Carmine, stato suo compagno e novizio insieme, dimorò molti mesi lavorando per tutta la terra assai cose. Essendogli poi, dalle monache di Santa Margherita, data a fare la tavola dell’altar maggiore, mentre vi lavorava gli venne un giorno veduta una figliuola di Francesco Buti cittadin fiorentino, la quale o in serbanza o per monaca era quivi. Fra’ Filippo dato l’occhio alla Lucrezia, che così era il nome della fanciulla, la quale aveva bellissima grazia et aria, tanto operò con le monache che ottenne di farne un ritratto, per metterlo in una figura di Nostra Donna per l’opra loro; e con questa occasione innamoratosi maggiormente, fece poi tanto per via di mezzi e di pratiche, che egli sviò la Lucrezia da le monache e la menò via il giorno appunto ch’ella andava a vedere mostrar la cintola di Nostra Donna, onorata reliquia di quel castello. Di che le monache molto per tal caso furono svergognate, e Francesco suo padre non fu mai più allegro e fece ogni opera per riaverla, ma ella o per paura o per altra cagione, non volle mai ritornare, anzi starsi con Filippo il quale n’ebbe un figliuol maschio, che fu chiamato Filippo egli ancora, e fu poi, come il padre, molto eccellente e famoso pittore”. (Vasari)

Suor Lucrezia Busi (Firenze, 1435 – XVI secolo) modella, però mai sposa, di Filippo Lippi (Firenze, 23 giugno 1406 – Spoleto, 9 ottobre 1469) e madre di Filippino Lippi (Prato, 1457 – Firenze, 1504):

“A legare i due c’ erano passione, fughe, scandali e bellissimi dipinti” esordisce Claudio Cerretelli, direttore dei musei diocesani di Prato ed esperto di Lippi.

Lucrezia Busi figlia del fiorentino Francesco Buti e di Caterina Ciacchi, era una giovane monaca dalla grande bellezza e affabilità e nel 1456 conobbe Filippo Lippi, cappellano del convento pratese di Santa Margherita di cui s’innamorò perdutamente. La loro storia d’amore  nacque nel nel monastero di Santa Caterina di Prato, dove, secondo il grande maestro Vasari, fu incontrata da Filippo Lippi che lavorava in città sulla tavola della Madonna dà la Cintola a san Tommaso. Lucrezia Buti, dalla bellezza eterea e dai capelli dorati, divenne la modella per santa Margherita (a sinistra del dipinto originale).

Dopo averla fatta posare per la pala, Filippo la convinse a fuggire dal convento, in occasione della processione della Sacra Cintola, portandola a vivere nella sua casa acquistata a Prato.

Lei, come Filippo, era stata vittima della monacazione forzata dovuta alla povertà della sua famiglia e dovette essere ben lieta di abbandonare, venendo in primo momento seguita anche dalla sorella Spinetta e da tre consorelle, le quali però, a differenza di Lucrezia, tornarono presto in monastero per placare lo scandalo suscitato.

Solo un anno dopo Lucrezia darà alla luce il primo figlio, Filippino (futuro artista e alunno dell’immortale Sandro Botticelli) e sarà solo per l’intercessione della famiglia Medici, grazie a Cosimo il Vecchio, che papa Pio II concederà ai due nel 1461 lo scioglimento dei voti. Seppur la loro relazione destò molto scandalo all’epoca e l’approvazione della chiesa venne sempre osteggiata in tutti i modi possibili dalla curia il loro amore non venne mai meno.

Il Lippi non sposerà mai Lucrezia (il Vasari riporta la notizia che i due non si sposeranno mai, perché Filippo preferiva fare “di sé e dell’appetito suo” come gli pareva) ma trasformerà la sua amata consorte in una modella immortale dei suoi dipinti, dalla Salomè del ciclo di Prato alla Lippina degli Uffizi, che darà vita ad un vero e proprio genere copiato per secoli.

Se la tormentata storia d’amore del Lippi darà scandalo senza precedenti tra i contemporanei, la grandezza della sua arte non sarà mai messa in dubbio, come testimonia l’ apprezzamento del Vasari:

“Fece in questo lavoro le figure maggiori del vivo dove introdusse poi agli altri artefici moderni il modo di dare grandezza alla maniera d’oggi. Fra tutti i committenti, Cosimo il Vecchio sarà il suo più grande estimatore, pronto a sopportare per amore dell’arte le intemperanze sentimentali del frate scapestrato. Narra sempre il Vasari (Vite, 1568) che un giorno Cosimo spazientito per i suoi continui ritardi, chiudesse il frate nel Palazzo di via Larga con l’intento di fargli finire un lavoro. Ma dopo due giorni il Lippi spinto da furore amoroso, anzi bestiale, una sera con un paio di forbici fece alcune liste de’ lenzuoli del letto, e da una finestra calatosi, attese per molti giorni a’ suoi piaceri”.

I due convissero in una casa in piazza del Duomo, vicino a dove il Lippi era impegnato nella realizzazione degli affreschi della cappella maggiore.  I due ebbero due figli: Filippino Lippi nel 1457 e, nel 1465, Alessandra.

Se si volesse cercare un “dipinto di famiglia” è curioso far notare che Filippino Lippi nella raffigurazione “dell’ Apparizione della Madonna a San Bernardo” (posta sulla sinistra di chi entra nella chiesa della Badia fiorentina), ha  raccontato magistralmente la straordinaria storia del frate e pittore Filippo Lippi e nello stesso dipinto, ritrasse i figli nei volti degli angeli.

 

VASARI

Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori (1568)/Fra’ Filippo Lippi

VITA DI FRA’ FILIPPO LIPPI PITTORE FIORENTINO

Fra’ Filippo di Tommaso Lippi, carmelitano, il quale nacque in Fiorenza, in una contrada detta Ardiglione, sotto il canto alla Cuculia, dietro al convento de’ frati Carmelitani, per la morte di Tommaso suo padre restò povero fanciullino d’anni due, senza alcuna custodia, essendosi ancora morta la madre non molto dopo averlo partorito. Rimaso dunque costui in governo d’una Mona Lapaccia sua zia, sorella di Tommaso suo padre, poi che l’ebbe allevato con suo disagio grandissimo, quando non potette più sostentarlo, essendo egli già di 8 anni lo fece frate nel sopra detto convento del Carmine, dove standosi, quanto era destro et ingenioso nelle azzioni di mano, tanto era nella erudizione delle lettere grosso e male atto ad imparare, onde non volle applicarvi lo ingegno mai, né averle per amiche. Questo putto, il quale fu chiamato col nome del secolo Filippo, essendo tenuto con gl’altri in noviziato e sotto la disciplina del maestro della gramatica, pur per vedere quello che sapesse fare, in cambio di studiare non faceva mai altro che imbrattare con fantocci i libri suoi e degl’altri. Onde il priore si risolvette a dargli ogni commodità et agio d’imparare a dipignere. Era allora nel Carmine la cappella da Masaccio nuovamente stata dipinta, la quale, perciò che bellissima era, piaceva molto a fra’ Filippo; laonde ogni giorno per suo diporto la frequentava e quivi esercitandosi del continovo in compagnia di molti giovani che sempre vi disegnavano, di gran lunga gl’altri avanzava di destrezza e di sapere, di maniera che e’ si teneva per fermo che e’ dovesse fare col tempo qualche maravigliosa cosa. Ma negl’anni acerbi, nonché ne’ maturi, tante lodevoli opere fece che fu un miracolo. Perché di lì a poco tempo lavorò di verde terra nel chiostro vicino alla sagra di Masaccio, un papa che conferma la Regola de’ Carmelitani, et in molti luoghi in chiesa in più pareti, in fresco dipinse, e particolarmente un San Giovanni Batista et alcune storie della sua vita; e così ogni giorno facendo meglio, aveva preso la mano di Masaccio, sì che le cose sue in modo simili a quelle faceva che molti dicevano lo spirito di Masaccio era entrato nel corpo di fra’ Filippo. Fece in un pilastro in chiesa la figura di San Marziale presso all’organo, la quale gli arrecò infinita fama, potendo stare a paragone con le cose che Masaccio aveva dipinte. Per il che sentitosi lodar tanto per il grido d’ognuno, animosamente si cavò l’abito, d’età d’anni XVII. E trovandosi nella Marca d’Ancona, diportandosi un giorno con certi amici suoi in una barchetta per mare, furono tutti insieme dalle fuste de’ Mori, che per quei luoghi scorrevano, presi e menati in Barberia, e messo ciascuno di loro alla catena e tenuto schiavo, dove stette con molto disagio per XVIII mesi. Ma perché un giorno, avendo egli molto in pratica il padrone, gli venne commodità e capriccio di ritrarlo, preso un carbone spento del fuoco, con quello tutto intero lo ritrasse co’ suoi abiti indosso alla moresca, in un muro bianco; onde, essendo dagli altri schiavi detto questo al padrone, perché a tutti un miracolo pareva, non s’usando il disegno né la pittura in quelle parti, ciò fu causa della sua liberazione dalla catena dove per tanto tempo era stato tenuto. Veramente è gloria di questa virtù grandissima, che uno a cui è conceduto per legge di poter condennare e punire, faccia tutto il contrario, anzi in cambio di supplicio e di morte, s’induca a far carezze e dare libertà. Avendo poi lavorato alcune cose di colore al detto suo padrone, fu condotto sicuramente a Napoli, dove egli dipinse al re Alfonso, allora Duca di Calavria, una tavola a tempera nella cappella del castello dove oggi sta la guardia. Appresso gli venne volontà di ritornare a Fiorenza dove dimorò alcuni mesi; e lavorò alle donne di S. Ambruogio all’altare maggiore una bellissima tavola, la quale molto grato lo fece a Cosimo de’ Medici, che per questa cagione divenne suo amicissimo. Fece anco nel capitolo di Santa Croce una tavola, et un’altra che fu posta nella cappella in casa Medici, e dentro vi fece la Natività di Cristo; lavorò ancora per la moglie di Cosimo detto, una tavola con la medesima Natività di Cristo e San Giovanni Batista, per mettere all’ermo di Camaldoli, in una delle celle de’ romiti che ella aveva fatta fare per sua divozione, intitolata a S. Giovanni Batista; et alcune storiette che si mandarono a donare da Cosimo a Papa Eugenio IIII viniziano, laonde fra’ Filippo molta grazia di quest’opera acquistò appresso il Papa. Dicesi ch’era tanto venereo, che vedendo donne che gli piacessero, se le poteva avere, ogni sua facultà donato le arebbe; e non potendo, per via di mezzi, ritraendole in pittura, con ragionamenti la fiamma del suo amore intiepidiva. Et era tanto perduto dietro a questo appetito, che all’opere prese da lui quando era di questo umore, poco o nulla attendeva. Onde una volta fra l’altre, Cosimo de’ Medici, faccendoli fare una opera in casa sua, lo rinchiuse perché fuori a perder tempo non andasse, ma egli statoci già due giorni, spinto da furore amoroso, anzi bestiale, una sera con un paio di forbici fece alcune liste de’ lenzuoli del letto, e da una finestra calatosi, attese per molti giorni a’ suoi piaceri. Onde, non lo trovando e facendone Cosimo cercare, alfine pur lo ritornò al lavoro; e da allora in poi gli diede libertà che a suo piacere andasse, pentito assai d’averlo per lo passato rinchiuso, pensando alla pazzia sua et al pericolo che poteva incorrere; per il che sempre con carezze s’ingegnò di tenerlo per l’avvenire, e così da lui fu servito con più prestezza, dicendo egli che l’eccellenze degli ingegni rari sono forme celesti e non asini vetturini. Lavorò una tavola nella chiesa di S. Maria Primerana in su la piazza di Fiesole, dentrovi una Nostra Donna annunziata dall’Angelo, nella quale è una diligenza grandissima, e nella figura dell’Angelo tanta bellezza che e’ pare veramente cosa celeste. Fece alle monache delle Murate due tavole, una della Annunziata, posta allo altar maggiore, l’altra nella medesima chiesa a un altare, dentrovi storie di San Benedetto e di San Bernardo, e nel palazzo della Signoria dipinse in tavola un’Annunziata sopra una porta, e similmente fece in detto palazzo un San Bernardo sopra un’altra porta, e nella sagrestia di San Spirito di Fiorenza una tavola con una Nostra Donna et Angeli d’attorno e Santi da lato, opera rara e da questi nostri maestri stata sempre tenuta in grandissima venerazione. In S. Lorenzo, alla cappella degli Operai, lavorò una tavola con un’altra Annunziata; et a quella della Stufa, una che non è finita. In S. Apostolo di detta città, in una cappella, dipinse in tavola alcune figure intorno a una nostra Donna; et in Arezzo, a Messer Carlo Marsupini, la tavola della cappella di S. Bernardo ne’ monaci di Monte Oliveto, con la incoronazione di Nostra Donna e molti santi attorno, mantenutasi così fresca che pare fatta dalle mani di fra’ Filippo al presente. Dove dal sopra detto Messer Carlo gli fu detto che egli avvertisse alle mani che dipigneva, perché molto le sue cose erano biasimate. Per il che fra’ Filippo nel dipignere da indi innanzi, la maggior parte, o con panni o con altra invenzione, ricoperse per fuggire il predetto biasimo. Nella quale opera ritrasse di naturale detto Messer Carlo. Lavorò in Fiorenza alle monache di Analena una tavola d’un presepio, et in Padova si veggono ancora alcune pitture. Mandò di sua mano a Roma due storiette di figure picciole al cardinal Barbo, le quali erano molto eccellentemente lavorate e condotte con diligenzia. E certamente egli con maravigliosa grazia lavorò, e finitissimamente unì le cose sue, per le quali sempre dagli artefici in pregio e da’ moderni maestri è stato con somma lode celebrato; et ancora mentre che l’eccellenza di tante sue fatiche la voracità del tempo terrà vive, sarà da ogni secolo avuto in venerazione. In Prato ancora vicino a Fiorenza dove aveva alcuni parenti, in compagnia di fra’ Diamante del Carmine, stato suo compagno e novizio insieme, dimorò molti mesi lavorando per tutta la terra assai cose. Essendogli poi, dalle monache di Santa Margherita, data a fare la tavola dell’altar maggiore, mentre vi lavorava gli venne un giorno veduta una figliuola di Francesco Buti cittadin fiorentino, la quale o in serbanza o per monaca era quivi. Fra’ Filippo dato l’occhio alla Lucrezia, che così era il nome della fanciulla, la quale aveva bellissima grazia et aria, tanto operò con le monache che ottenne di farne un ritratto, per metterlo in una figura di Nostra Donna per l’opra loro; e con questa occasione innamoratosi maggiormente, fece poi tanto per via di mezzi e di pratiche, che egli sviò la Lucrezia da le monache e la menò via il giorno appunto ch’ella andava a vedere mostrar la cintola di Nostra Donna, onorata reliquia di quel castello. Di che le monache molto per tal caso furono svergognate, e Francesco suo padre non fu mai più allegro e fece ogni opera per riaverla, ma ella o per paura o per altra cagione, non volle mai ritornare, anzi starsi con Filippo il quale n’ebbe un figliuol maschio, che fu chiamato Filippo egli ancora, e fu poi, come il padre, molto eccellente e famoso pittore. In S. Domenico di detto Prato sono due tavole, et una Nostra Donna nella chiesa di S. Francesco nel tramezzo, il quale levandosi di dove prima era, per non guastarla, tagliarono il muro dove era dipinto, et allacciatolo con legni attorno lo trasportarono in una parete della chiesa dove si vede ancora oggi. E nel Ceppo di Francesco di Marco, sopra un pozzo in un cortile, è una tavoletta di man del medesimo col ritratto di detto Francesco di Marco, autore e fondatore di quella casa pia. E nella pieve di detto castello fece in una tavolina sopra la porta del fianco, salendo le scale, la morte di S. Bernardo, che rende la sanità, toccando la bara, a molti storpiati; dove sono frati che piangono il loro morto maestro, ch’è cosa mirabile a vedere le belle arie di teste, nella mestizia del pianto con arteficio e naturale similitudine contrafatte. Sonvi alcuni panni di cocolle di frati che hanno bellissime pieghe e meritano infinite lodi, per lo buon disegno, colorito, componimento e per la grazia e proporzione, che in detta opra si vede, condotta dalla delicatissima mano di fra’ Filippo. Gli fu allogato dagli Operai della detta pieve per avere memoria di lui, la cappella dello altar maggiore di detto luogo, dove mostrò tanto del valor suo in questa opera ch’oltra la bontà e l’arteficio di essa, vi sono panni e teste mirabilissime. Fece in questo lavoro le figure maggiori del vivo, dove introdusse poi negli altri artefici moderni il modo di dar grandezza, alla maniera d’oggi. Sonvi alcune figure con abbigliamenti in quel tempo poco usati, dove cominciò a destare gli animi delle genti a uscire di quella semplicità che più tosto vecchia che antica si può nominare. In questo lavoro sono le storie di S. Stefano, titolo di detta pieve, partite nella faccia della banda destra, cioè la disputazione, lapidazione e morte di detto protomartire; nella faccia del quale disputante contra i Giudei dimostrò tanto zelo e tanto fervore, che egli è cosa difficile ad imaginarlo nonché ad esprimerlo, e nei volti e nelle varie attitudini di essi Giudei l’odio, lo sdegno e la collera del vedersi vinto da lui; sì come più apertamente ancora fece apparire la bestialità e la rabbia in coloro che l’uccidono con le pietre, avendole afferrate chi grandi e chi piccole, con uno strignere di denti orribile, e con gesti tutti crudeli e rabbiosi. E nientedimeno, infra sì terribile assalto, S. Stefano sicurissimo e col viso levato al cielo, si dimostra con grandissima carità e fervore supplicare a l’Eterno Padre, per quegli stessi che lo uccidono. Considerazioni certo bellissime e da far conoscere altrui quanto vaglia la invenzione et il saper esprimer gl’affetti nelle pitture. Il che sì bene osservò costui, che in coloro che sotterrano S. Stefano fece attitudini sì dolenti et alcune teste sì afflitte e dirotte nel pianto, che non è a pena possibile di guardarle senza commuoversi. Da l’altra banda fece la natività, la predica, il battesimo, la cena d’Erode, e la decollazione di S. Giovanni Batista, dove nella faccia di lui predicante, si conosce il divino spirito, e nelle turbe che ascoltano, i diversi movimenti e l’allegrezza e l’afflizione, così nelle donne come negli uomini, astratti e sospesi tutti negli ammaestramenti di S. Giovanni. Nel battesimo si riconosce la bellezza e la bontà; e nella cena di Erode, la maestà del convito, la destrezza di Erodiana, lo stupore de’ convitati e lo attristamento fuori di maniera nel presentarsi la testa tagliata dentro al bacino. Veggonsi intorno al convito infinite figure con molto belle attitudini e ben condotte, e di panni e di arie di visi, tra i quali ritrasse allo specchio se stesso vestito di nero in abito da prelato, et il suo discepolo fra’ Diamante dove si piange S. Stefano. Et invero questa opera fu la più eccellente di tutte le cose sue, sì per le considerazioni dette di sopra, e sì per aver fatto le figure alquanto maggiori che il vivo; il che dette animo a chi venne dopo lui di ringrandire la maniera. Fu tanto per le sue buone qualità stimato, che molte cose che di biasimo erano alla vita sua, furono ricoperte mediante il grado di tanta virtù. Ritrasse in questa opera Messer Carlo figlio naturale di Cosimo de’ Medici, il quale era allora proposto di quella chiesa, la quale fu da lui e dalla sua casa molto beneficata. Finita che ebbe quest’opera l’anno 1463, dipinse a tempera una tavola per la chiesa di S. Iacopo di Pistoia, dentrovi una Nunziata molto bella per Messer Iacopo Bellucci, il qual vi ritrasse di naturale molto vivamente. In casa di Pulidoro Bracciolini è in un quadro una Natività di Nostra Donna di sua mano; e nel magistrato degl’Otto di Firenze è, in un mezzo tondo dipinto a tempera, una Nostra Donna col Figliuolo in braccio. In casa Lodovico Caponi in un altro quadro una Nostra Donna bellissima; et appresso di Bernardo Vecchietto gentiluomo fiorentino, e tanto virtuoso e da bene quanto più non saperei dire, è di mano del medesimo in un quadretto piccolo un S. Agostino che studia, bellissimo. Ma molto meglio è un S. Ieronimo in penitenzia, della medesima grandezza in guardaroba del duca Cosimo. E se fra’ Filippo fu raro in tutte le sue pitture, nelle piccole superò se stesso, perché le fece tanto graziose e belle, che non si può far meglio, come si può vedere nelle predelle di tutte le tavole che fece. Insomma fu egli tale che ne’ tempi suoi niuno lo trapassò, e ne’ nostri, pochi; e Michelagnolo l’ha non pur celebrato sempre, ma imitato in molte cose. Fece ancora per la chiesa di S. Domenico vecchio di Perugia, che poi è stata posta all’altar maggiore, una tavola, dentrovi la Nostra Donna, S. Piero, S. Paulo, S. Lodovico e S. Antonio abbate. Messer Alessandro degl’Alessandri, allora cavaliere et amico suo, gli fece fare per la sua chiesa di Villa a Vincigliata nel poggio di Fiesole, in una tavola, un S. Lorenzo et altri Santi, ritraendovi lui e dua suoi figliuoli. Fu fra’ Filippo molto amico delle persone allegre e sempre lietamente visse. A fra’ Diamante fece imparare l’arte della pittura, il quale nel Carmino di Prato lavorò molte pitture, e della maniera sua imitandola, assai si fece onore, perché e’ venne a ottima perfezzione. Stette con fra’ Filippo in sua gioventù Sandro Boticello, Pisello, Iacopo del Sellaio fiorentino, che in S. Friano fece due tavole et una nel Carmino lavorata a tempera, et infiniti altri maestri ai quali sempre con amorevolezza insegnò l’arte. De le fatiche sue visse onoratamente, e straordinariamente spese nelle cose d’amore; delle quali del continuo, mentre che visse, fino a la morte si dilettò. Fu richiesto, per via di Cosimo de’ Medici, dalla comunità di Spoleti di fare la cappella nella chiesa principale della Nostra Donna, la quale lavorando insieme con fra’ Diamante condusse a bonissimo termine, ma sopravenuto dalla morte non la potette finire. Perciò che dicono che essendo egli tanto inclinato a questi suoi beati amori, alcuni parenti della donna da lui amata lo fecero avvelenare. Finì il corso della vita sua fra’ Filippo di età d’anni 57 nel 1438, et a fra’ Diamante lasciò in governo per testamento Filippo suo figliuolo, il quale, fanciullo di dieci anni, imparando l’arte da fra’ Diamante, seco se ne tornò a Fiorenza, portandosene fra’ Diamante 300 ducati che per l’opera fatta si restavano ad avere da le comunità, de’ quali comperati alcuni beni per sé proprio, poca parte fece al fanciullo. Fu acconcio Filippo con Sandro Botticello, tenuto allora maestro bonissimo; et il vecchio fu sotterrato in un sepolcro di marmo rosso e bianco, fatto porre dagli Spoletini nella chiesa che e’ dipigneva. Dolse la morte sua a molti amici et a Cosimo de’ Medici particolarmente et a papa Eugenio, il quale in vita sua volle dispensarlo, che potesse avere per sua donna legitima la Lucrezia di Francesco Buti, la quale per potere far di sé e dell’appetito suo come gli paresse, non si volse curare d’avere. Mentre che Sisto IIII viveva, Lorenzo de’ Medici, fatto ambasciator da’ Fiorentini, fece la via di Spoleti, per chiedere a quella comunità il corpo di fra’ Filippo per metterlo in S. Maria del Fiore in Fiorenza; ma gli fu risposto da loro che essi avevano carestia d’ornamento, e massimamente d’uomini eccellenti, per che per onorarsi gliel domandarono in grazia, aggiugnendo che avendo in Fiorenza infiniti uomini famosi, e quasi di superchio, che e’ volesse fare senza questo, e così non l’ebbe altrimenti. Bene è vero che deliberatosi poi di onorarlo in quel miglior modo ch’e’ poteva, mandò Filippino suo figliuolo a Roma al cardinale di Napoli, per fargli una cappella. Il quale passando da Spoleti, per commessione di Lorenzo, fece fargli una sepoltura di marmo sotto l’organo e sopra la sagrestia, dove spese cento ducati d’oro, i quali pagò Nofri Tornaboni maestro del banco de’ Medici, e da Messer Agnolo Poliziano gli fece fare il presente epigramma, intagliato in detta sepoltura di lettere antiche:

Conditus hic ego sum picturae fama Philippus; nulli ignota meae est gratia mira manus. Artifices potui digitis animare colores; sperataque animos fallere voce diu. Ipsa meis stupuit natura expressa figuris; meque suis fassa est artibus esse parem. Marmoreo tumulo Medices Laurentius hic me condidit; ante humili pulvere tectus eram.

Disegnò fra’ Filippo benissimo, come si può vedere nel nostro libro di disegni de’ più famosi dipintori, e particolarmente in alcune carte, dove è disegnata la tavola di S. Spirito et in altre dove è la cappella di Prato.

FINE DELLA VITA DI FRA’ FILIPPO PITTORE FIORENTINO


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