La Sibilla Appenninica e le fate dei Monti Sibillini

Ibis redibis non morieris in bello

(Alberico delle tre fontane, Chronicon)

Ciao a tutti dalla vostra Streghetta Meroe 🙂 Oggi volevo parlarvi delle mie amiche Sibille o più precisamente della Sibilla Appenninica! Io ho sempre amato la natura, nonostante le fastidiose zanzare o le vipere che mi amano così tanto da danzare non appena mi vedono. Diciamo che sono carine ma quando ti strisciano addosso sono un po troppo viscidine!

Le Marche sono una delle regioni più belle che abbia mai visitato. Ogni angolo è colmo di magia, bellezza, storia e autenticità. Vi esorto a scoprirle e a immergervi nelle loro leggende! Le colline quanto le montagne affusolate echeggiano una magia propria, quanto le acque del Mare Adriatico che silenti baciano le rive bianche della spiaggia. L’Italia è meravigliosa ma ancor di più ciò che essa nasconde. Principi, cavalieri, maghi, fantasmi, streghe e fate appaiano in ogni cultura e in queste terre più che mai.

Ovvio vi sono anche demoni malvagi e il demonio stesso che fa la sua comparsa ma questa è un’altra avventura che vi racconterò. Ma ora veniamo a noi e parliamo della mia amica Sibilla! Colei che vede tutto e non ha timore nel pronunziarsi.

Le Sibille
Cappella Sistina – Vaticano

Le sibille, in greco antico Σίβυλλα o Síbyllae e in latino Sibylla erano fanciulle dalla verginità incorrotta dotate di virtù profetiche.

Nell’antichità classica, queste enigmatiche figure femminili, venivano invasate o ispirate da un dio, che faceva fluire in loro delle visioni di ciò che era e di ciò che sarebbe avvenuto. Responsi e predizioni, in forma oscura o ambivalente ma alimentate da una antica forza terrena che fece inchinare imperatori e pontefici.

Mediatrici fra dio e l’uomo, spesso concepite come figlie di divinità e di ninfe e dee esse stesse; non immortali, ma miracolosamente longeve, continuerebbero a vivere e profetizzare anche per millenni.

Le Sibille sono creature legate per tradizione ad un culto oracolare fisso e, nonostante le leggende vogliano che sia Apollo la principale divinità al quale siano consacrate, vi sono narrazioni che le vedono consacrate al culto di Ecate, come la Sibilla Cumana. Nell’antico turbinio del tempo e della memoria dell’uomo vi erano altre divinità al quale erano consacrate le Sibille, un dio o una dea, che con il loro immenso potere riuscivano a sfiorare l’implacabile cuore umano, infondendogli conoscenza e spesso il dono della visione.  

Le visioni e successivamente le profezie avvenivano sotto il raggio lunare o solare dell’ispirazione, anche senza interrogativi o domande mortali. Dirompenti e fluttuanti ciò che riuscivano a scorgere al dì là del velo prendeva forma sotto i loro occhi, così da conoscere non solo il futuro ma anche l’emanazione di ciò che era andato perduto. Alcuni la chiamavano profezia, altri magia, altri ancora stregoneria ma le Sibille erano assai più antiche e sagge da mascherarsi da semplici sacerdotesse. Alcuno erano regine delle montagne, altre implacabili benefattrici delle pianure, altre ancora signore dei laghi e dei fiumi. Donne dalla grandezza divina ma custodi di un cuore umano.

Le sibille erano leggendarie profetesse, collocate in diversi luoghi del bacino del Mediterraneo. Tra le più conosciute, la Sibilla Eritrea, la Sibilla Cumana, la Sibilla Delfica e la Sibilla Pastora rappresentanti altrettanti gruppi: ionici, italici ed orientali. Nella Roma repubblicana e imperiale un collegio di sacerdoti custodiva gli Oracoli sibillini, testi sacri di origine etrusca, consultati in caso di pericoli o di catastrofi.

Dal II secolo a.C. si sviluppa negli ambienti ebraici romanizzati un’interpretazione dei vaticini delle Sibille corrispondente alle attese messianiche. Successivamente i cristiani videro nelle predizioni delle veggenti pagane preannunci dell’avvento di Gesù Cristo e del suo ritorno finale.

La Sibilla nella storia

I primi dati letterari, da Eraclito in poi, parlano di una Sibilla, al singolare e senza precisazione del luogo della sua attività; da Aristotele in poi si allude a più Sibille e si cominciano a distinguere Sibille locali, fino ad arrivare a cataloghi di 10 Sibille, come quello riportato da Varrone (Sibilla persiana, libica, delfica, cimmeria, eritrea, samia, cumana, ellespontica, frigia, tiburtina), e anche di 20 in alcune tradizioni.

Le Sibille, rappresentate autonomamente o associate ai profeti, per le loro qualità divinatorie furono interpretate come profetesse dell’avvento di Cristo nel mondo pagano. Le rappresentazioni di singole Sibille, fin dal Medioevo, vedono protagoniste per lo più la Sibilla Eritrea, la Sibilla Cumana (in riferimento a fonti romane, dall’Eneide alle Metamorfosi di Ovidio) e la Sibilla Tiburtina, quest’ultima legata alla leggenda della fondazione della chiesa romana dell’Aracoeli, che ebbe grande diffusione grazie ai Mirabilia Romae, alla Legenda aurea di Iacopo da Varazze, alle sacre rappresentazioni. La raffigurazione delle Sibille in gruppo, per lo più associate ai profeti, si diffuse a partire dal 14° sec., ma soprattutto dopo l’edizione a stampa delle Institutiones divinae di Lattanzio (1465) e la pubblicazione delle Discordantiae del domenicano F. Barbieri (1481), che distinguevano fino a 12 Sibille. Il tema, diffuso in tutta Europa, ebbe grande fortuna soprattutto nell’arte italiana del Rinascimento.

Connessi alla Sibilla Cumana, i Libri sibillini erano una raccolta di testi oracolari adoperati nella religione pubblica romana; un collegio sacerdotale, originariamente di 2, poi di 10, quindi di 15 membri (II viri – X viri e XV viri – sacris faciundis), era addetto alla consultazione di questi libri, in occasione di certi prodigi o di situazioni critiche dello Stato, per appurare la volontà degli dei. Essi spesso prescrivevano l’introduzione di nuovi culti, tra cui quelli di origine greca. Secondo la tradizione i libri sarebbero stati venduti al re Tarquinio Prisco o a Tarquinio il Superbo dalla Sibilla Cumana: questa avrebbe offerto al re una raccolta più ampia, di 9 volumi, distruggendone un terzo al primo rifiuto e un terzo al secondo rifiuto del re di acquistarli. I libri erano custoditi nel tempio di Giove Capitolino sul Campidoglio e andarono distrutti nell’incendio dell’83 a.C. Augusto ne promosse una nuova raccolta e fece collocare i testi nel tempio di Apollo sul Palatino. Consultati fino al tempo di Giuliano l’Apostata, verso il 400 furono bruciati per ordine di Stilicone. Ne restano vari frammenti. Oracoli sibillini Raccolta in 14 libri che Ebrei della diaspora, soprattutto dell’Egitto, misero insieme, utilizzando una precedente letteratura ‘profetica’ pagana a fini apologetici e per proselitismo religioso. Vengono così attribuiti alla mitica Sibilla precetti e vaticini che rispecchiano i capisaldi della fede giudaica: monoteismo e condanna del culto degli idoli, giustizia di Dio estesa a tutte le genti, prospettiva apocalittica. Gli oracoli sibillini ebbero larghissima diffusione andando soggetti, per la loro stessa natura, a continue manipolazioni e aggiunte, alcune delle quali anche di mano cristiana proseguirono nel Medioevo.

Il più antico scrittore che nomini la Sibilla è Eraclito, il quale ne conosce una sola (cfr. Plutarco De Pythiae orac. 6 e Clemente Alessandrino Strom. I XV 70). In epoca più tarda il numero delle Sibille oscilla in genere tra due e dieci e ognuna di esse è associata a un antro o a una fonte sacra, posti in località disparate. Dieci Sibille comprende in particolare il catalogo di Varrone, che è tra tutti il più noto (in Lattanzio Div. Inst. I 6); e di queste la più celebre, grazie a Virgilio, è la Sibilla Cumana, la quale in origine s’identificava con la Sibilla Eritrea, portata a Cuma dai coloni ionici, ma divenuta poi completamente autonoma per la sua relazione con Roma. Secondo la tradizione leggendaria raccolta da Virgilio, la Sibilla Cumana scriveva i propri responsi su foglie che, disperse dal vento all’aprirsi della caverna in cui erano racchiuse, li rendevano indecifrabili (Aen. III 443-452; cfr. anche Giovenale Sat. III 2-3, VIII 126).

Alla fonte virgiliana s’ispira l’immagine che in Pd XXXIII 66 (così al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla) costituisce la terza delle tre similitudini intese a rievocare la rapidità con cui si è dileguata dalla mente la visione di Dio da lui avuta nell’Empireo.

Il nome della Sibilla ricorre ancora in Cv IV XXVI 9 (Quanto spronare fu quello, quando esso Enea sostenette solo con Sibilla a intrare ne lo inferno a cercare de l’anima di suo padre Anchise, contra tanti pericoli, come nel sesto de la detta istoria si dimostra), con riferimento al racconto della discesa di Enea agl’Inferi quale si legge in Aen. VI 236 ss. Ma qui il fulcro dell’interesse è spostato tutto sul personaggio di Enea, in quanto l’attacco iniziale (Quanto spronare fu quello) riproduce Aen. VI 261 ” nunc animis opus, Aenea, nunc pectore firmo “, un’espressione che individua l’elemento atto a sviluppare l’allegoria della fortezza, entro una prospezione storica che fa dell’eroe troiano il fondatore dell’impero universale.

La Sibilla più Antica

La sibilla più antica di cui si hanno documentazioni (circa XIV secolo a.C.) è la Pizia: profetessa dell’Oracolo di Delfi, ovvero una sacerdotessa che esercitava la divinazione del futuro presso il tempio di Apollo della città greca di Delfi, situato nella Focide alle falde del Monte Parnàso. La Pizia era coadiuvata da un gruppo di sacerdoti che amministravano il culto di Apollo ed interpretavano i vaticini che essa pronunciava invasata dalla spirito del dio. Per quasi due millenni il ruolo fu ricoperto dalle donne della città di Delfi, scelte senza requisiti di età. La pratica venne destituita nel 392 d.C., quando i decreti teodosiani soppressero i culti pagani.

La leggenda di Guerrin Meschino e della Sibilla Appenninica

Quella del “Guerrin Meschino”, il leggendario cavaliere errante, è la storia lieve e mesta di un fanciullo di origine principesca di nome Guerino che, ancora in fasce, fu rapito da una nave corsara e venduto ad un mercante di Costantinopoli. A casa di questo artigiano del ferro il giovane Guerino trascorse tutta la sua adolescenza mostrando fin da piccolo un’abilità fuori dal comune nel gioco delle armi. Questa sua capacità fu subito notata da Alessandro, figlio dell’imperatore di Costantinopoli, che lo volle al suo servizio.

Monti Sibillini

Qui Guerino condusse e vinse diverse battaglie e giostre individuali acquistando gloria e fama. Si sentì anche bruciare il cuore per la bella principessa Elissena, figlia dell’imperatore, ma un giorno questa lo offese accusandolo di essere un miserabile e così da quel momento tutto l’amore che gli ardeva in cuore si tramutò in disprezzo e mai si spense. Ottenne una gloriosa vittoria sui Turchi, salvando così Costantinopoli ma questo non lo rese felice anzi, era sempre triste e melanconico. Il suo desiderio più profondo restava sempre quello di conoscere la sua vera patria, i suoi genitori, il suo nome.

E fu così che a vent’anni iniziò il suo lungo peregrinare per il mondo alla ricerca di ciò che cercava. Viaggiò molto, Asia, Africa, India, visitando anche gli alberi del Sole e della Luna. Ma niente, ovunque andava chiedeva se ci fossero stati luoghi ove Oracoli potessero rivelargli quello che tanto ardentemente andava cercando. Quando sembrava che tutte le speranze si fossero consumate, a Tunisi, il mago romito Calagabach gli parlò della fata Alcina che viveva in un regno fatato sui monti del centro Italia. Il Meschino non perse tempo, e dopo un confuso viaggiare per il Mediterraneo giunse finalmente a Norcia dove trovò ospitalità presso l’oste Anuello. Viste le intenzioni del cavaliere tutti lo sconsigliarono di intraprendere questa avventura, ma egli pieno di coraggio proseguì nella sua intenzione.

Salito alla vetta del monte Sibilla raggiunse la gran caverna, accese la candela e si inabissò nella spelonca continuando a recitare preghiere. Lo scenario era triste, raccapricciante Finalmente giunse davanti alla porta dannata che una volta aperta rivelò uno scenario completamente cambiato.Tre damigelle lo condussero da Alcina. Erano le ore dodici del quindici giugno. Era un mondo pieno di tentazioni ma Guerino riuscì a resistere ben consapevole del suo scopo. Ma la fata era esplicita, egli avrebbe saputo la propria origine solo passando per la via del peccato. Ma il Meschino non peccò. E dopo sette mesi di permanenza e vanificato ogni tentativo decise di uscire.

Dopo di ciò Guerino si recò a Roma dal Papa a cercare quello che altrove non aveva trovato. Fu Dio, e non maghi o dèi pagani, che lo condusse in Puglia a difendere re Guiscardo dai Saraceni. E qui liberati due vecchi prigionieri scoprì che erano re Milone e la regina Fenisia: i suoi genitori.

La Sibilla Appenninica

Non tutti sanno che i Monti Sibillini nascondono, da molti secoli, uno dei segreti più misteriosi ed affascinanti della nostra penisola: l’enigma della Sibilla Appenninica, oggetto di viaggi ed esplorazioni, sin dal XV° sec., da parte di illustri studiosi, avventurieri senza scrupoli e letterati di chiara fama.


Illustrazione del 1420 di Antoine de La Sale, raffigurante il Vettore e il Lago di Pilato, e la Sibilla con la sua grotta.

Il Monte Sibilla ha sempre esercitato un fascino sinistro ed ambiguo sull’immaginazione dei popoli di tutta Europa, sensibili al richiamo della leggenda che faceva di quella vetta la magica residenza di un antico oracolo, chiamato Sibilla, proprio come le profetesse dell’età classica.
In effetti, in prossimità della cima del monte, c’è una grotta: il punto d’ingresso verso le profondità sconosciute della montagna, dove la Sibilla vivrebbe in uno splendido palazzo sotterraneo, circondata da preziosi tesori e damigelle dalla bellezza incantatrice.

Il primo a raccontare questa storia fu, nel 1430, Andrea da Barberino, con il suo romanzo “Guerrin Meschino“, opera fortunatissima che conobbe una vasta diffusione in tutta Europa. Pochi anni più tardi, sarà poi il gentiluomo provenzale Antoine de La Sale a narrare, nella sua opera “Il Paradiso della Regina Sibilla”, di un suo viaggio compiuto fin sulla cima del Monte della Sibilla in cerca della grotta, con un resoconto sospeso tra la cronaca giornalistica ante litteram e la magia delle leggende che circondavano, già da tempo, la cima di quella montagna.

E con queste leggende si cimenteranno poi geografi fiamminghi, notissimi uomini di lettere come l’Ariosto, famosi letterati quali Flavio Biondo e Leandro Alberti, nonché schiere di cavalieri, nobili ed avventurieri che si recheranno sulla cima del monte per tentare di fare ingresso in quel mondo fatato e meraviglioso. Molti, senza farne più ritorno.

Oggi, l’ingresso della grotta è crollato e appare inaccessibile, a causa dei numerosi tentativi, compiuti nel XX° sec., di forzarne l’ingresso utilizzando potenti esplosivi. Ma la magia è ancora intatta poiché nel 2000 alcuni ricercatori hanno compiuto indagini geognostiche sulla vetta della montagna, facendo uso di tecnologie avanzate quali la misurazione degli echi radar, restituendo come responso “cavità presenti nel sottosuolo”.

“Entrati nella grotta tramite uno stretto pertugio in parte occluso da una roccia, si giunge facilmente ad un primo vano quadrato dove tutt’intorno vi sono dei sedili intagliati nella roccia delle pareti. Da questa stanza si prosegue solo scendono per stretti e ripidi cunicoli, i quali scoraggiarono de La Sale, che non proseguì oltre. Tuttavia, dai racconti degli abitanti di Montemonaco, si apprende che questi cunicoli scendano per circa tre miglia per poi allargarsi in un ampio corridoio, fino a giungere ad una fessura dalla quale scaturisce un vento procelloso che ricaccia indietro anche i più audaci; quindici tese oltre la vena del vento la corrente d’aria cessa, dopodiché, proseguendo per ancora altre tre tese, si arriva sul ciglio di un baratro senza fondo dove scorre un fiume fragorosissimo, attraversabile solo tramite un ponte di materia indefinita, lunghissimo e non più largo di un piede. Ma come per incanto, appena imboccato il ponte questo si allarga e l’abisso si rimpicciolisce sempre più, finché ci si trova in una galleria fantasmagorica attraversata da una strada comodissima. Al termine della strada si trovano due statue di dragoni dagli occhi fiammeggianti che illuminano tutt’intorno; superati i dragoni si prosegue per ancora cento passi lungo un corridoio strettissimo, fino ad uno spiazzo quadrangolare dove si trovano due porte di metallo che sbattono violentemente l’una contro l’altra rischiando di schiacciare chi dovesse tentare di attraversarle. Oltre le porte metalliche vi è una porta fastosissima e luminosissima che immette nel regno della Sibilla, la quale accoglie festosa l’intrepido viaggiatore insieme ad una moltitudine di soavi damigelle e giovani, tra lo sfolgorio abbagliante di vesti e gioielli.
Coloro che abitano nella grotta imparano a comprendere tutte le lingue del mondo dopo nove giorni, e dopo trecento giorni sanno parlarle tutte. Ed essi restano immortali fino alla fine dei tempi. Chi entra nella grotta può decidere di andarsene solo dopo l’ottavo, il trentesimo o il trecentotrentesimo giorno, e chi dovesse decidere di rimanere nella grotta per un anno non potrà più tornare al mondo terreno.
Nella grotta non esistono vecchiaia e dolore, né sofferenza del caldo o del freddo, ma si gode fino al sommo della delizia. Tutti gli abitanti della grotta vivono immersi nelle più fastose ricchezze, allietati dalle splendide damigelle della Sibilla. Tuttavia alla mezzanotte di ogni venerdì essi si trasformano serpenti schifosi, e tali restano fino alla mezzanotte del sabato”.



Il cavaliere tedesco e il suo scudiero sulla soglia del Regno della Sibilla

La Sibilla, insomma, è ancora lì. E il suo richiamo può essere ancora udito, quando il sole si nasconde oltre le creste del Monte Vettore, nella meravigliosa luce del tramonto dei Monti Sibillini; e il Monte della Sibilla, montagna coronata di roccia, consacrata ad un’antica divinità, viene avvolto dalle ombre della sera in attesa che un nuovo esploratore, animato dallo stesso sogno vivo ormai da molti secoli, possa violarne finalmente il segreto così ben custodito.

Michele Sanvico, autore del romanzo “Abyssus Sibyllae – Il cacciatore di sibille“, 2010

La Sibilla Appenninica, detta anche Sibilla Picena o Sibilla di Norcia vive fra le magnifiche montagne che portano il suo stesso nome: Monti Sibillini. Paesaggi magici e colmi di mistero si annidano fra le incontaminate architetture naturali delle Marche, dove ad oggi, le leggende e i misteri camminano di pari passi con l’artista e l’avventuriero.

Ingresso grotta della Sibilla

Sebbene nei testi medievali si parli della Sibilla, la definizione di Sibilla Appennina compare per la prima volta solo nel 1938, nel libro di Augusto Vittori “Montemonaco nel Regno della Sibilla Appennina” con prefazione di Fernand Desonay. Probabilmente a causa di complessi processi di sincretismo culturale viene identificata come sibilla; ma in realtà, nonostante alcune fonti risalenti all’inizio dell’era imperiale riferiscano di un oracolo sugli Appenini, essa non rientra nel canone delle dieci Sibille classiche riportato da Varrone. Nonostante ciò viene da molti ritenuta la più potente e divina. Le leggende popolari la vedono come una grande regina e dea delle montagne. Magnanima per chi rispetta la vita e gli affetti quanto terrificante per chi è malvagio ed egoista.

Sibilla Cumana o Sibilla Appenninica?

Dal XV sec. si diffuse una leggenda secondo la quale la Sibilla Cumana, vergine profetessa della nascita di Cristo, si adirò con Dio per non essere stata scelta come madre del Salvatore, e fu per questo esiliata sugli Appennini. Nel Guerrin Meschino si narra questa storia, che il protagonista sente raccontare da due uomini appena giunto nella città di Norcia:

«Di questa città ho udito dir, che ci è la Incantatrice Alcina, la qual s’ingannò di modo, che ella credea che Dio scendesse in lei, quando incarnò in Maria vergine, e per questo ella si disperò, e fu giudicata per questa cagion in queste montagne.»
(Andrea da Barberino, Guerrino detto il Meschino, Libro V, cap. 137)

Anche Giovan Battista Lalli, poeta tardo rinascimentale di Norcia scrisse all’inizio del ‘600:

«È fama, che da Cuma, oue le prime
Stanze l’illustre Profetessa ottenne,
Mentre turba importuna iui le opprime
La sua quiete, a lei partir convenne.
Ne le rimote, e discoscese cime
Del Norsin Monte a riposar se’n venne
Dal curioso vulgo iui si cela,
E raro altri secreti altrui riuela.»
(G.B.Lalli, Il Tito overo Gerusalemme desolata, Canto II, strofa 11)

Non si hanno fonti certe sull’origine di questa leggenda che vede la Sibilla Cumana spostarsi verso gli Appennini. Il primo documento in cui si trova un riferimento ad una storia simile è Le Livre de Sibile, attribuito al monaco francese Philippe de Thaon (XI-XII sec): egli tradusse in francese medievale (più esattamente in anglo-normanno) un poema latino riguardante la Sibilla Tiburtina, nel quale si narra che la profetessa fu chiamata a Roma e interpellata per interpretare un sogno fatto nella stessa notte da cento senatori che sognarono ognuno nove soli diversi; la Sibilla risponde che non era possibile svelare un tale segreto in un luogo contaminato e corrotto qual era il Campidoglio, ma era necessario spostarsi sul monte Aventino. Nella traduzione francese medievale viene riportato “mont Apennin” invece di “mont Aventin“.

Tradizione locale

Secondo la tradizione locale, la Sibilla (nel dialetto locale “Sibbilla“) è una fata buona, Maga bella e maliarda, “veggente e incantatrice“, ma non perfida e neppure demoniaca. Ella vive nella grotta circondata dalle sue ancelle, ovvero fate dai piedi caprini che escono dalla grotta per ballare con i pastori, o scendono a valle per insegnare alle fanciulle del posto a filare e tessere le lane. Altre storie narrano che la loro discesa non era solo dedita al piacere delle danze, bensì erano dedite all’atto amoroso con i giovani fanciulli delle valli. La dolce sinfonia dell’amore e del sesso durava fino ai primi raggi solari per poi scomparire nel grande tempio situato all’interno della Montagna della Sibilla.

Secondo un racconto locale, fu la Sibilla a provocare un intenso evento tellurico nel paese di Colfiorito, antico nome di Pretare, che distrusse il sito riducendolo ad un mucchio di pietre. Questo avvenne quando le sue fate rimasero a ballare nel borgo oltre l’orario consentito per il rientro nella grotta. Altra leggenda vuole che il terremoto fu provocato dalla Dea Sibilla perché una notte, abbigliata da mendicante, andò a visitare la sua gente chiedendo un riparo o del semplice cibo. Nessuno a Pretare aveva riconosciuto la loro dea e così fu allontanata e additata. Maltrattata da coloro che reputava, prima di allora, buoni di cuore, evocò un potente terremoto per distruggere tutti coloro che avevano l’avarizia e l’egoismo al posto del cuore. Tanto distruttrice quanto creatrice, una dea madre antica e onnisciente, che per amore delle sue terra avrebbe donato la sua vita e la sua prosperità.

Il lago di Pilato o Lago della Sibilla

Oltre alle leggende legate alla Sibilla e alla sua grotta, si tramandano fatti e storie anche riguardo al lago di Pilato a lei intimamente legato e situato nel vicino Monte Vettore. Infatti nel XV secolo veniva ancora chiamato Lago della Sibilla come si evince sia da un documento amministrativo di quel periodo (una sentenza) sia da un disegno di Antoine de la Sale mentre nei secoli successivi si affermerà sempre più la dizione Lago di Pilato.

Lago della Sibilla – Lago di Pilato – Monte Vettore

E anche per il lago le leggende che ci sono pervenute provengono dal testo di Antoine de La Sale: è qui infatti che si racconta di come il corpo di Ponzio Pilato, dopo essere stato giustiziato per ordine dell’imperatore per non aver impedito la crocifissione di Gesù, fu caricato su un carro trainato da due bufali che da Roma lo trasportarono fino ai Monti Sibillini e si gettarono infine nel lago. Il De La Sale riferisce questa storia udita dagli abitanti di Montemonaco, dimostrando come questa non può essere vera in quanto la versione raccontata dal popolo voleva che l’imperatore che emise la condanna a morte fu Tito Vespasiano, quando Pilato visse invece sotto Tiberio.

Antoine de La Sale racconta anche che al tempo della sua visita a Montemonaco (inizio XV sec), l’accesso al lago fosse vietato in quanto frequentatissima meta di negromanti che vi salivano per consacrare libri del comando (grimori) ai demoni che abitavano quelle acque. Ogni volta che qualcuno evocava gli spiriti maligni del lago si scatenava una violenta tempesta che distruggeva tutti i raccolti della zona; ed era perciò interesse degli abitanti del luogo tutelarsi: per visitare il lago era necessario un salvacondotto rilasciato dalle autorità della città di Norcia, e il malcapitato che vi fosse stato sorpreso senza autorizzazione avrebbe perfino rischiato la vita. Si racconta di una volta in cui due negromanti (uno dei quali era un prete) vennero catturati presso il lago dai locali: uno venne condotto a Norcia e condannato, mentre l’altro fu fatto a pezzi e gettato nelle acque del lago.

Durante i secoli XV, XVI e XVII la letteratura italiana è prodiga di riferimenti, seppur spesso consistenti solo in semplici accenni, alle arti negromantiche praticate presso il lago di Pilato. Conferma dell’importante afflusso di visitatori alla grotta e al lago è data da una sentenza di assoluzione del 1452, in cui l’inquisitore della Marca Anconitana De Guardariis assolve la popolazione di Montemonaco dalla scomunica in cui era incorsa per aver accompagnato “ad lacum Sibyllae” (al lago della Sibilla) cavalieri “provenienti dalla Spagna e dal Regno di Napoli” per consacrarvi libri proibiti mentre li ospitavano in Montemonaco ove praticavano, in casa di Ser Catarino, l’alchimia.

Origini antiche della Sibilla Appenninica

A riguardo dell’origine più antica della Sibilla Appeninica, la maggioranza degli studiosi (tra i quali Gaston Paris, Pio Ràjna, Fernand Desonay e Domenico Falzetti) cita le tradizioni legate a CibeleMagna Mater anatolica, dea dei laghi e delle fonti, importata a Roma dalla Frigia nel 204 a.C., venerata con riti orgiastici e cruenti. Alla dea sarebbe stata sostituita la sibilla, tenuta in grande onore anche dai cristiani come profetessa. Secondo gli apologeti di questa teoria, la stessa parola “Sybilla” potrebbe esse morfologicamente connessa con “Cybele“. Ancora, la forma della corona rocciosa della vetta del Monte Sibilla ricorderebbe il polos che adorna il capo di Cibele nelle icone tradizionali, la quale circostanza avrebbe contribuito all’accostamento della divinità a questo particolare monte.


Simulacro di Cibele, II sec a.C., Roma – Antiquarium del Palatino

Altri parlano di una dea Nemesi o Norzia, dea della fortuna e del fato, di origine etrusca, rappresentata da un idolo d’argento con il volto di pietra nera, affine a Cibele, e che era venerata sotto forma di roccia ma anche come uno straordinario idolo, prima di pietra e poi d’argento, noto a Norcia sin dall’epoca del bronzo tardo: la dea Orsa. Si tratta di un ricco complesso mitico-rurale (sino ad ora quasi ignorato, forse una traduzione italica paleoumbra del culto di Artermide Brauronia con possibili influenze celtiche) nato a Norcia ma trasferitosi sulle montagne nel VI secolo e che può costituire un antecedente significativo del culto sibillino. Il nome della cattedrale di Santa Maria Argentea testimonierebbe il culto di questi idoli dalla testa argentata.

Forse il culto pastorale del Giove delle alture – o, secondo altri, della Dea della Vittoria – si fuse con altre tradizioni oracolari dei Pelasgi approdati sulle coste marchigiane e con quelle dei Celti presenti sul territorio sin dal V secolo a.C., ma anche con arcaici culti solari e riti erotico-orgiastici a dominante femminile.

Le cerimonie a carattere iniziatico femminile (legate alle nozze e più in generale alla propiziazione delle fecondità umana e animale) erano caratterizzate da riti orgiastici e sembrerebbero apparentate con i riti descritti nelle tavole iuguvine, il più importante testo rituale dell’antichità classica risalente al 1000 a.C., inciso in sette tavole di bronzo tra III e I sec a.C. L’intero complesso può costituire le basi del mito della Sibilla Appenninica la cui figura si definisce e si consolida in epoca medievale.

Le Fate dei monti Sibillini

Le fate sibilline sono descritte nei racconti popolari come giovani donne di bell’aspetto, vestite con caste gonne che celano però zampe di capra: il calpestio dei loro passi ricorda infatti il rumore degli zoccoli degli animali sulle pietraie dei monti.

Queste affascinanti creature si muovevano tra il lago di Pilato, dove secondo la tradizione si recavano per il pediluvio, ed i paesi di Foce, Montemonaco, Montegallo, e tra gli altopiani di Castelluccio di Norcia e Pretare.

Le fate amavano danzare nelle notti di plenilunio, e appropriandosi segretamente dei cavalli dei residenti raggiungevano le piazze dei paesi vicini alla loro grotta per ballare con i giovani pastori. Sempre secondo questi ricordi si attribuisce alle fate l’aver introdotto il ballo del “saltarello“. Presso il paese di Rubbiano c’è una località che in ricordo di questi balli (reso “valli” nel dialetto locale) si chiama tutt’oggi “Valleria“.

Uscivano prevalentemente di notte, ma dovevano ritirarsi in montagna prima del sorgere delle luci dell’aurora, per non essere escluse dall’appartenere al regno incantato della Sibilla. Si racconta che in una notte, durante la quale si erano attardate nei balli, le fate furono sorprese dall’alba e costrette ad una precipitosa fuga verso la grotta: a questo evento la leggenda fa risalire la formazione della Strada delle Fate, una faglia che attraversa orizzontalmente la costa del monte Vettore intorno a quota duemila metri. Secondo un’altra versione, le fate fuggirono dalla festa dopo che un uomo, insospettito dallo strano rumore dei piedi delle donne durante le danze, alzò la gonna di una di esse e scoprì le parti caprine.

Secondo una leggenda, uscendo dalla loro grotta, le fate si fermavano presso una stalla per impadronirsi degli equini ed utilizzarli per rapidi spostamenti. Il proprietario dei cavalli insospettito dal ritrovare al mattino le bestie sudate ed affaticate, nonostante la fresca temperatura del ricovero, si appostò per capire cosa succedesse durante la sua assenza e scoprì che erano proprio le fate a servirsi dei suoi animali. Ancora si racconta che le fate intreccino i crini dei cavalli al pascolo o durante la notte, ed è assolutamente proibito sciogliere queste trecce, onde evitare di incappare in una ripicca da parte delle creature fatate. Secondo altri racconti le fate si recavano anche a valle per insegnare alle giovani la filatura la tessitura delle lane.

Da questa abitudine delle fate di avere contatti con il mondo che le circondava nasce anche il tema del mito dell’amore che le legava agli uomini. Questi ultimi, una volta entrati in contatto con loro, sarebbero stati sottratti al loro mondo, abbandonando così la sorte di semplici mortali, ed investiti di una sorta di immortalità che li avrebbe lasciati in vita fino alla fine del mondo, così come succedeva alle fate, ma costretti a vivere nel sotterraneo regno di Alcina.

Le fate sibilline furono demonizzate per lunghi secoli dalle prediche di santi e di frati e costrette a rifugiarsi nelle viscere della montagna e costrette ad entrare a far parte del mondo invisibile. Sempre secondo la ricerca di Polia, gli abitanti delle zone imputano la scomparsa delle fate ad una sorta di scomunica inflitta loro da Alcina che volle punirle per aver incautamente mostrato le loro parti caprine.

Retaggi della leggenda

Sui monti Sibillini ci sono oggi molti luoghi segnati dal passaggio e dalla leggenda delle fate, infatti, oltre alla grotta della Sibilla e la Grotta delle Fate di Pretare (Monte Vettore), ci sono la Fonte delle Fate (Monte Argentella), i sentieri delle fate e la già citata Strada delle Fate.

A Pretare ancora oggi una rappresentazione detta “La discesa delle fate” custodisce e rievoca la memoria della presenza di queste creature.

Anche in alcuni detti popolari sopravvive il ricordo di queste misteriose creature quando si dice: “Quanto sono belle queste fate, però jè scrocchieno li piedi come le capre.” Polia riporta questa frase nella narrazione del racconto in cui descrive l’avvenenza di queste donne ed il desiderio degli uomini di riaccompagnarle presso la loro dimora.

Ipotesi sull’origine delle fate

Sono fate la cui storia è indissolubilmente legata alle tradizioni leggendarie e popolari che si originano dalla presenza dell’oracolo della Sibilla Appenninica. Di loro non si ritrovano tracce nei racconti e nei miti del contado ascolano, ma soltanto nelle narrazioni tramandate dal versante umbro, cioè dalle zone di montagna comprese tra il massiccio del Vettore e monte Sibilla.

Erano creature avvezze alle asperità della montagna e, secondo l’antropologo Mario Polia, non sarebbero da considerarsi come figure assimilabili alle creature leggiadre delle tradizioni celtiche, alle donne-elfo della tradizione germanica fatte di luce solare, alle fate delle fiabe che ballano nelle radure dei boschi o alle figure minori delle ninfe greche.

Secondo alcuni, le fate in realtà potrebbero essere state delle donne celtiche, che orfane dei loro guerrieri morti o fatti prigionieri dai Romani nella battaglia di Sentino del 293 a.C., si rifugiarono in migliaia sulle alture umbro-marchigiane dove trovarono ospitalità.

Panorami unici per una regione unica

Cosa scoprire sui Monti Sibillini:

FIASTRA: LE LAME ROSSE

Le Lame Rosse sono delle gole di impareggiabile bellezza che l’impetuosità delle acque, del vento e della neve, ha scavato nei secoli lasciando dietro di sé torrioni, guglie di roccia rossa ed accumuli di ghiaia a forma di fungo alti decine di metri.

FIASTRA: LAGO DI FIASTRA – 685 MT

MONTEFORTINO: RUBBIANO – LE GOLE DELL’INFERNACCIO

Le Gole dell’Infernaccio, in origine chiamate “Golubro”, dal latino “Gula” che significa gola e “Lubricum” che sta ad indicare scivolosa ed impenetrabile, sono delle splendide gole naturali frutto del paziente lavoro del fiume Tenna che, nel corso di milioni di anni, ha eroso queste rocce creandosi una via di uscita. Si narra che la strada che conduce all’entrata delle Gole dell’Infernaccio molto tempo fa era chiamata “Valleria”, cioè il luogo che le Fate della Sibilla, scendendo dal Monte Sibilla, raggiungevano nelle notti di plenilunio per ballare con i pastori del luogo i “valli”, i balli in dialetto. Altre leggende narrano che la gola fosse il luogo di ritrovo di streghe, maghi, negromanti e demoni. La natura fino ad oggi ha celato tale misteriosa bellezza ma, come ogni magia, l’energia di quel luogo sprigiona tutta la sua forza e beltà.

Nel 1970 si stabilì il frate cappuccino Padre Pietro Lavini con l’intento di ricostruire quell’antico edificio che stando a quanto riportano testi dell’epoca, doveva trattarsi di uno degli eremi più antichi e belli di tutte le Marche. Eremo di San Leonardo.

CESSAPALOMBO: GROTTA DEI FRATI

Sui Monti Sibillini vi sono numerose grotte che nell’antichità venivano utilizzate a scopo eremitico dai monaci o dai frati. Qui nel comprensorio di Fiastra, sul versante sud del Monte Fiegni, su una parete rocciosa sovrastante le Gole del Fiastrone, si trova la Grotta dei Frati.

MONTEFORTINO: AMBRO – SANTUARIO DELLA MADONNA DELL’AMBRO (XI°SEC.)

Incastonato in un’ampia gola nel cuore dei Monti Sibillini, tra pendici boscose e ripide pareti rocciose, interamente immerso nel silenzio e isolato tra i monti, sorge il suggestivo Santuario della Madonna dell’Ambro. Posto alle pendici del Monte Priora e del Monte Castel Manardo, è il santuario più antico delle Marche e, dopo Loreto, il più importante e visitato luogo mariano. Ogni anno è meta di migliaia di pellegrini e non solo che, sempre più numerosi, vi si recano per visitare questo luogo di culto e rendere omaggio alla Vergine Maria.

La storia della sua origine sopra descritta la si può leggere su di una lapide commemorativa voluta da Padre Federico da Mogliano e posta all’interno di una cappella che riporta così inciso:

“Nel Maggio del Mille la Vergine Santissima, cinta di straordinario splendore, apparve in questa sacra roccia all’umile pastorella Santina, muta dalla nascita. La fanciulla ottenne il dono della parola in premio alle preghiere ed offerte di fiori silvestri che ogni giorno faceva all’immagine della Madonna posta in una cavità di un faggio…”

Alcuni racconti popolari vedono l’apparizione della Vergine Maria come l’apparizione stessa della Sibilla Appenninica eguagliata al suo pari. Altri racconti invece vedono in quella manifestazione divina non l’apparizione della madre di Cristo ma bensì la magnanima Sibilla in procinto di avvicinarsi ai suoi figli.

MONTEMONACO: LA MONTAGNA DELLA SIBILLA

LAGHETTO DI PALAZZO BORGHESE – 1.786 MT

Il Laghetto di Palazzo Borghese è posto a quota 1.786 mt. di altitudine sotto le pendici rocciose di Monte Palazzo Borghese all’interno di un’ampia conca carsico-glaciale. E’ uno splendido specchio di acqua raggiungibile solo a piedi e visibile esclusivamente tra la primavera e l’inizio dell’estate dopo lo scioglimento delle nevi dei ghiacciai invernali.

EREMO DELLA MADONNA DEL SASSO: VALLEREMITA DI CALDAROLA

Rannicchiata in un incavo della roccia in un piccolo slargo delimitato a valle da un muro di sostegno in muratura di pietra.
Si ipotizza che la costruzione del Santuario nasca da un romitorio dei monaci della potente Abbazia di S. Benedetto de crypta in saxo latronis, i cui ruderi tuttora s’impongono più in alto nelle immediate vicinanze.
L’Eremo è, in pratica, incastonata sotto una prorompente sporgenza rocciosa del Monte Fiungo e domina l’alta valle del Chienti dall’alto di un suggestivo balcone. Una leggenda narra che all’interno di essa si nascondesse l’ingresso del tempio della Sibilla Cimaria.

SARNANO: MEDIOEVO E FASCINO

LORO PICENO: IL VINO COTTO FRA CULTURA E LEGGENDA

SAN GINESIO: BALCONE DEI SIBILLINI

FOCE: LE PORTE DEL MONTE VETTORE

ACQUACANINA: CASTELLO DI VARANO E CHIESA DI SANTA MARGHERITA (XIV°SEC.)

ARQUATA DEL TRONTO> IL CASTELLO, LA ROCCA E LA REGINA GIOVANNA (XII°SEC.)

VISSO: MACERETO – SANTUARIO DEL MACERETO (XIV°SEC.)

USSITA> CALCARA – CASCATA DELLE CALLARELLE

CASTELSANTANGELO SUL NERA: VALLINFANTE – LE CASCATE DEL PISCIATORE

ABBAZIA DI SAN EUSTACHIO E LA VALLE DEI GRILLI


Il risveglio della Sibilla: 13/11/2016
Quadro di Simone Alessi

Vi prometto che parlerò in dettaglio di ciascuna meta così da potervi immergere in questi luoghi affascinati e permeati di magia.

Sarò una streghetta pasticciona ma senza dubbio di parola 🙂

A presto miei amici miei e alla prossima magica avventura!


One thought on “La Sibilla – Σίβυλλα

  1. Meravigliosa ed arguta descrizione della Sibilla Appenninica, che mi hanno svegliato, sorpreso ed eccitato di tante cose lette studiate e vissute, argomentate con maestria e bravura …. chiederti di piu’ ? Con affetto Ciao Alberto

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