“nguento ‘nguento, manname a lu nocio ‘e Beneviente, sotto ll’acqua e sotto o viento, sotto a ogne maletiempo”.

La janara nelle credenze popolari dell’Italia meridionale e in particolare dell’area di Benevento e in modo minore il Casertano, è una delle tante specie di streghe che popolavano la tradizione del mondo agreste.

Il nome deriva da Dianara, ossia «sacerdotessa di Diana», dea romana della Luna, oppure dal latino ianua, «porta»: era appunto dinanzi alla porta, che, secondo la tradizione, era necessario collocare una scopa, oppure un sacchetto con grani di sale; la strega, costretta a contare i fili della scopa, o i grani di sale, avrebbe indugiato fino al sorgere del sole, la cui luce pare fosse sua mortale nemica.

Secondo le leggende, le streghe beneventane si riunivano sotto un immenso noce lungo le sponde del fiume Sabato. A Maloenton, originario nome di Benevento, si venerava Bolla, un dio bambino che secondo la leggenda creò il fiume omonimo nella zona corrispondente a Volla/Casalnuovo. Sotto il grande albero di Noce, i sacerdoti e le antiche sacerdotesse veneravano con danze e rituali il loro dio.

Benevento però era anche un capoluogo di un ducato Longobardo, adoratori del dio Odino. Per onorarlo, dicono alcune leggende, si riunivano davanti a un grande albero di noce. Il rito pagano, essendo loro un popolo guerriero, consisteva nell’appendere pelli di montone ai rami e colpirli con lance e frecce, mentre cavalcavano al contrario, in sella ai loro cavalli, riducendo le pelli in pezzi piccolissimi, che poi finivano per mangiare. Assistevano a tali riti anche le donne longobarde, che gridavano e incitavano gli uomini a consumare il rito.

Per ottenere l’appoggio della Chiesa per sconfiggere i Bizantini, il Duca longobardo, Romualdo, accettò di essere convertito al Cristianesimo e con lui, tutti i Longobardi.

Pietro Piperno, nell’opera “Della superstitiosa noce di Benevento” del 1640 narra che circa nell’anno 697 d.C. il Vescovo di Benevento, Barbato, con l’appoggio del Duca Romualdo riuscì a proibire i riti pagani notturni sotto il Noce.  Egli promise che, se Benevento avesse resistito ai Bizantini guidati da Costante, avrebbe sradicato il sacro Noce. E così fece. Ben nota l’iconografia medioevale che rappresenta San Barbato ed il suo imponente corteo mentre sradica la malefica pianta a colpi di scure. La leggenda vuole che, nonostante tutto, il Noce ricrescesse ancora più vigoroso quasi ad assecondare la voglia della gente del luogo di perpetuare gli antichi culti legati ai cicli della terra. Questo spinse la chiesa ad insistere nella repressione di queste usanze pagane. 


Pietro Piperno – Della superstitiosa noce di Benevento (1640)

Il grande albero di noce attorno al quale si consumava il rito pagano per il dio Odino fu abbattuto e la leggenda narra che, appena l’albero cadde in terra, ne uscii fuori una vipera, simbolo di Satana, e animale caro alla dea Iside.

Anche dopo la conversione, i Longobardi di Benevento non rinunciarono ai loro riti pagani e continuarono a praticarli di notte. Intorno alle campagne, fuori dalle mura, tra fuochi e grida. Gli abitanti di Benevento scambiarono gli uomini e le donne longobarde con demoni e streghe. Le notti del Sabba continuarono.

Il passaggio cruciale avvenne nel corso del XV secolo.

La prima traccia storica si ritrova in uno scritto, in cui Bernardino da Siena racconta che nell’anno 1427 si era recato a Roma:

Elli fu a Roma uno famiglio d’uno cardinale, el quale andando a Benivento di notte, vidde in sur una aia ballare molta gente, donne e fanciulli e giovani; e così mirando, elli ebbe grande paura.

In quegli anni iniziava a Roma la persecuzione delle streghe che avrebbe insanguinato mezza Europa per secoli. San Bernardino da Siena, predica in tutta l’Italia centrale, in quegli anni è proprio a Roma e conosce bene le leggende beneventane per avere soggiornato in quei luoghi.  Nei suoi sermoni dedica una particolare attenzione alle donne, in particolare quelle che conoscono la medicina naturale, le levatrici, le erboriste, le indovine. Egli le addita pubblicamente come nemiche della chiesa, alleate del demonio e responsabili di terribili misfatti come carestie, pestilenze, morti premature, sventura. Le farneticanti teorie si diffusero ben presto, grazie all’opera dei devoti del famoso predicatore e alla fama di cui questo personaggio godeva.

Ferdinand Gregorovius, grande storico e medievalista, racconta che il 28 giugno 1424 a Roma, in Campo dei fiori (Campidoglio) fu arsa sul rogo la strega Finnicella. La guaritrice era accusata di avere ucciso 30 neonati, compreso il figlio, per berne il sangue. Fu Bernardino da Siena a sostenere l’accusa di stregoneria contro Finnicella, che fu condannata a morire sul rogo.

La stessa sorte ricadde su Matteuccia da Todi, bruciata sul rogo a Todi il 20 marzo del 1428.  Matteuccia di Francesco, questo il suo nome, era di Ripabianca. Il lungo atto di accusa che la condannò al rogo cita per la prima volta l’esistenza dell’unguento malefico che permetteva alle streghe di volare e la formula necessaria: 

“dopo essersi unta di grasso di avvoltoio, sangue di nottola e sangue di bambini lattanti, Matteuccia invocava il demonio Lucibello, che le appariva in forma di caprone, la prendeva in groppa e la portava al noce di Benevento, dove erano radunate moltissime streghe e demoni capitanati da Lucifero maggiore.” 

La povera Matteuccia riferì anche la formula che faceva volare. 

Su di lei gravavano decine di capi di imputazione, tutti riconducibili ad un’unica ragione d’accusa: la stregoneria. 

Il processo di Todi usò per la prima volta il termine “strega” e Matteuccia finì per diventarne l’archetipo. Arrestata perché ritenuta “donna di cattiva condotta e reputazione, pubblica incantatrice, fattucchiera, strega e maliarda”. E’ una “domina herbarum” e una “taumaturga”, cioè conosce il potere delle erbe curative e sa curare le malattie con rimedi naturali. A lei si rivolgono anche le donne che vogliono interrompere una gravidanza scomoda. All’epoca del suo processo Matteuccia era, dunque, famosa e temuta. Sottoposta a tortura Matteuccia confesserà di aver volato, trasformata in gatta, a cavallo di un demonio nelle sembianze di caprone, al noce di Benevento. Ad ispirare queste affermazioni, apparse per la prima volta in atti processuali per stregoneria, fu proprio San Bernardino da Siena, il quale aveva predicato proprio in quelle terre di Todi, Montefalco e Spoleto. Fu Bernardino ad introdurre il termine “strega” e sempre Bernardino ad aver parlato per la prima volta di Benevento come città di riunioni notturne delle streghe. La confessione veniva sempre estorta con la tortura.

Il nome di Benevento venne fatto anche nel processo del 1456, a carico di Mariana di San Sisto, conclusosi con la condanna alla morte sul rogo. Ella viene accusata di andare con una sua compagna

ad surchiandum pueros et una nocte dicti mensi Iulii dicta Mariana et eius sotia in facie et corpore ipsarum se unserunt cum certis unguentis diabolicis et incantatis per dictam mulierem sotiam dicte Mariane, inter alia dicendo: “Unguento, menace a la noce de Menavento, sopra l’acqua e sopra al vento” et de nocte accesserunt ad nuces et arbores nucum ubi sole et sine lumine tripudiabant”.

Benevento e la leggenda del Noce sono presenti anche in altri due processi tenutisi innanzi al Santo Uffizio di Roma, nel corso del XVI secolo, che ebbero grande eco.

Il primo processo era a carico di Bellezza Orsini, accusata di malefici e venefici. Ella era esperta di erbe con le quali fabbricava medicine. Un giovane da lei curato non riuscì a salvarsi ed i parenti accusarono Bellezza d’averlo deliberatamente stregato e ucciso. Si aggiunsero alla denuncia della famiglia molte testimonianze contro la Orsini. Bellezza fu condotta nel carcere di Fiano e sottoposta a interrogatori con tortura, durante i quali finì per  confessare ogni cosa che gli veniva detta,  fra cui:

Andamo alla noce de Benevento e illi facemo tucto quello che volemo col peccato renuntiamo al baptismo e alla fede e pigliamo per signore e patrone el diavolo e facemo quel che vole luj e non altro” – “E andamo alla noce  de Benevento dove ce reducemo tucte insieme e illi facemo gran festa e gioco e pigliamo piacere grande e poi il diavolo piglia quattro frondi de quella noce e cusì ne ritornamo a casa e dove volemo ad stregare e far male ad qualcheduno…”.

Anch’ella riporta la formula per volare. Bellezza Orsini disperata e sfinita dalla tortura, si suiciderà in carcere, tagliandosi la gola con un chiodo, sfuggendo al rogo. 

Il secondo processo, del 1552, fu a carico di Faustina Orsi. Come da canovaccio, anche lei fu accusata di uccisioni di bambini, crimini che confesserà sotto tortura. All’epoca del processo Faustina ha 80 anni e venne arsa viva sul rogo come strega.

Benevento  nell’immaginario collettivo era, ed è, il covo delle streghe, il luogo ove cresceva, maestoso e terrificante, un grande noce …IL NOCE, quello intorno al quale si riunivano le più grandi e  potenti streghe provenienti da tutta Europa.

Perché proprio un noce? A questo albero si attribuivano virtù e poteri magici, anche letali; è noto, infatti, che si ritenesse pericoloso sostare all’ombra sotto un noce (Historia Naturalis – Plinio). Inoltre, il noce era sacro a Diana, la dea signora delle selve, protettrice degli animali selvatici, custode delle fonti e dei torrenti, protettrice delle donne e del parto. Ormai tutti concordano che il termine con cui si chiama la strega a Benevento, Janara, derivi proprio da “Dianara”, cioè sacerdotessa di Diana.

La dea Diana, identificata nella sua manifestazione lunare, è stata oggetto di culto nella “stregheria” della tradizione italiana, e adorata come dea dei poveri, degli oppressi e dei perseguitati dalla chiesa cattolica.”


Charles Leland, Il vangelo delle streghe

E l’unguento magico è mai esistito? Nel De humana physiognomonia, di Giovanbattista Della Porta, opera che uscirà solo nel 1598 a Napoli sotto il falso nome di Giovanni de Rosa, il noto accademico racconta di aver assistito alla cerimonia di preparazione di una strega diretta al Sabba ed, in particolare, della preparazione della ricetta usata dalla strega. Spiega scopo e preparazione della ricetta: agiva da vasodilatatore e serviva ad attenuare l’azione irritante sulla pelle di alcune sostanze, come il sangue di pipistrello. Lo studioso napoletano intendeva, con ciò, asserire che il volo delle streghe non è reale, ma si tratta solo di allucinazioni provocate dalle sostanze psicotrope naturali assorbite con gli unguenti e quindi il diavolo non c’entra nulla: “…solo allora esse credono di volare, di banchettare, di incontrarsi con bellissimi giovani, dei quali desiderano ardentemente gli abbracci”. 

Tuttavia, lo scritto scatenò una feroce attenzione del Santo Uffizio, in particolare il riferimento alla preparazione dell’unguento e ad uno degli ingredienti della pomata usata dalle streghe: la “pinguedo puerorum”, cioè il grasso di neonato.

Oltre alla janara vi era la Manolonga (Maria la longa), una donna che era morta cadendo in un pozzo e, poiché non aveva trovato pace, si divertiva a tirare giù nel pozzo chi si affacciava.

Leggende

La janara usciva di notte e si intrufolava nelle stalle dei cavalli per prendere una giumenta e cavalcarla per tutta la notte. Avrebbe avuto inoltre l’abitudine di fare le treccine alla criniera della giovane cavalla rapita, lasciando così un segno della sua presenza. Capitava a volte che la giumenta sfinita dalla lunga cavalcata non sopportasse lo sforzo immane a cui era stata sottoposta, morendo di fatica. Per evitare il rapimento delle giumente si era soliti, nel passato e ancora oggi, piazzare un sacco di sale o una scopa davanti alle porte delle stalle, poiché la janara non poteva resistere alla tentazione di contare i grani di sale o i fili della scopa e mentre lei fosse stata intenta nella conta sarebbe venuto il giorno e sarebbe dovuta fuggire.

La janara solitamente era una esperta in fatto di erbe medicamentose, ed ella sapeva riconoscere tra le altre anche quelle con poteri narcotici oppure stupefacenti, che usava nelle sue pratiche magiche, come la fabbricazione dell’unguento che le permetteva di diventare incorporea con la stessa natura del vento. Contrariamente a tutte le altre streghe, la janara era solitaria e tante volte, anche nella vita di tutti i giorni, aveva un carattere aggressivo e acido.

Secondo la tradizione, per poterla acciuffare bisognava afferrarla per i capelli, il suo punto debole. A quel punto, alla domanda “che tie’ ‘n mano?”, cioè “cosa hai tra le mani?” bisognava rispondere “fierro e acciaro” in modo che non si potesse liberare; se al contrario si fosse risposto “capiglie'”, cioè capelli, la Janara avrebbe risposto “e ieo me ne sciulio comme a n’anguilla”, cioè me ne scivolo via come un’anguilla, e si sarebbe così liberata dandosi alla fuga. Inoltre si diceva che a chi fosse riuscito a catturare la janara quando era incorporea ella avrebbe offerto la protezione delle janare sulla famiglia per sette generazioni in cambio della libertà.

Si accreditava alle janare anche la sensazione di soffocamento che a volte si prova durante il sonno, si pensava infatti che la janara si divertisse a saltare sulle persone cercando di soffocarle, si diceva che questo accadesse soprattutto ai giovani uomini. Inoltre si riteneva che i bambini che avessero manifestato improvvisamente deformazioni nel fisico, fossero stati nottetempo passati attraverso il treppiede che si usava nel focolare per sostenere il calderone. “La janara ll’è passato dinto ‘u trepète”, trad.: “La janara lo ha fatto passare attraverso il treppiede”.

In ogni paesino del Sannio beneventano esistono svariate storie sulle janare ma bisogna ammettere che queste si assomigliano molto tra di loro, variando spesso solo per il luogo in cui è avvenuto il fatto e per il dialetto in cui viene raccontato, ovviamente ogni paesino ha la sua strega. Di seguito ci sono alcune di quelle più ricorrenti.

Fu trovato qui un foglio che narra di un boscaiolo beneventano passando di notte per uno di questi posti ebbe lo spiacere di assistere al sabba, cerimonia in cui si venerava Satana e ogni simbolo cristiano veniva messo al contrario. Egli, corso a casa, raccontò alla moglie tutto ciò che aveva visto: «C’erano donne che calpestavano la croce, altre che con alcuni uomini si dedicavano alle orge più sfrenate e altre ancora che si cospargevano di sangue. In mezzo a tutto ciò ho visto un cane orrendo che sedeva su un trono …». La mattina dopo quell’uomo fu trovato ucciso.

Altra storia correlata alla figura della janara è quella che identifica un metodo pressoché infallibile per riconoscerle quando sono in sembianza umana: secondo questa diceria, basta recarsi alla messa della notte di Natale e, una volta terminata, uscire ed attendere per vedere le ultime donne che abbandonano la chiesa. Secondo la storia queste sarebbero le janare che, in forma umana, hanno assistito (per una sorta di contrappasso mistico-religioso) alla funzione più sacra di tutta la cristianità.


Obelisco egizio presente nel centro di Benevento.
La stele del tempio dedicato a Iside

Alla scoperta dei luoghi delle streghe

Pochi luoghi sono rimasti immutati dallo scorrere del tempo. Un luogo che che testimonia l’origine del culto ‘magico’ a Benevento è l’Obelisco egizio che si trova nel centro cittadino, portato in epoca romana e venerato anche in epoca cristiana, segretamente. Oltre alle janare vi sono altre streghe legate ai miti di Benevento, come la Zoccolara, che infestava la zona del Teatro Romano. Circondato dal Rione Triggio, il teatro fu fatto erigere dall’imperatore Adriano, e ha dimensioni imponenti. Ecco, attorno al monumento potreste ancora sentire il rumore di zoccoli della strega, figura che a sua volta riprende il culto pagano di Ecate, che indossava un solo sandalo.
Bisogna spostarsi fuori città invece per oltrepassare il ponte delle Janare, un ponte sospeso su una gola, sul cui fondo vi è un piccolo torrente in cui ogni tanto si formano degli strani gorghi (detti ‘dell’inferno’). Questo ponte è legato alla leggenda della Manalonga, strega che vive nei pozzi e tira giù i malcapitati passanti. Si trova a San Lupo.

Tre erano le tipologie di streghe beneventane: Zoccolara, una donna misteriosa che di notte correva per le strade ciottolose, facendo gran rumore con i suoi zoccoli; Janara, la donna nata la notte di Natale a mezzanotte e che, da grande, non aveva ricevuto bene il sacramento della cresima e Manolonga (Maria a Longa), una donna morta cadendo in pozzo: per vendetta, tirava giù chi si sporgeva troppo dai pozzi, dai balconi o dalle finestre. Naturale, dunque, che a Benevento, ci sia Janua, il primo Museo multimediale permanente sulle Streghe.
L’installazione regala al pubblico, un’esperienza fantastica, un viaggio della durata di circa 20 minuti all’interno di un mondo misterioso, alla scoperta della storia, dell’arte, delle tradizioni e delle leggende di Benevento e del Sannio. Libri di malefici, mantelli, scope, trecce di capelli, contenitori di erbe magiche, pestelli, noci e fave, civette, il piatto con l’olio per cancellare le fatture, le corde annodate e le chiavi sono le testimonianze di un mondo parallelo, che i documenti storici dei processi ad alcune famose streghe dell’epoca avvicina alla Storia.

La leggenda del fantasma della bella ragazza

Benevento chiesa-Santa-Anastasia

Chiesa di Santa Anastasia

Ponte, piccolo paese poco fuori Benevento, era terra della strega Joconna. 
Lungo la strada, tra stretti tornanti e gole profonde, il ponte del borgo di San Lupo atterrisce ancora il viaggiatore con la leggenda del fantasma di una bella ragazza, nata dall’unione amorosa tra un diavolo e una strega, che venne affogata nel fiume dagli abitanti del borgo perchè accusata di stregoneria da un corteggiatore respinto. Pare che, ancora oggi, chi si affacci da quel ponte venga trascinato giù, nel fiume dal fantasma della ragazza.

Un’altra leggenda racconta che a Benevento, nel cuore della notte, un marito si accorse che la moglie si era alzata dal letto. L’uomo di nascosto seguì la donna spiando tutto ciò che ella faceva. Vide la moglie afferrare un vasetto contenente un misterioso unguento, cospargersi il corpo con quell’impasto e buttarsi nel vuoto dalla finestra, prendendo il volo. Resosi conto, quindi, che la moglie era una janara, il marito sostituì l’unguento magico della moglie con del semplice olio che tuttavia aveva lo stesso aspetto. Di lì a pochi giorni, la janara si alzò nottetempo e, preso nuovamente il solito vasetto, si cosparse il corpo dell’unguento contenuto nel vasetto, quindi si buttò dalla finestra. Quella notte, però, non prese il volo ma precipitò a terra e morì.

Questa storia è il racconto che le anziane della città tramandano ai giovani ma probabilmente deriva da un poemetto napoletano ottocentesco autore è un protomedico beneventano Pietro Piperno nel suo saggio “Della superstitiosa noce di Benevento” (1639, traduzione dall’originale in latino “De Nuce Maga Beneventana”) fa risalire le radici della leggenda delle streghe al VII secolo. La storia racconta che un marito scoprì che la propria moglie era una janara. Le rivelò ciò che aveva scoperto e le chiese di essere condotto al Sabba per poter partecipare anch’egli alla riunione di tutte le janare. Il sabato seguente, la moglie janara condusse il marito al Sabba che si celebrava sotto un grande noce. Lì erano raccolte tutte le ianare del mondo – secondo alcuni erano circa 2.000. Nel convegno malefico, si mangiava e si beveva.

L’ingenuo marito, notando che il cibo era sciapito, chiese del sale, ma appena ebbe condito col sale la pietanza che stava mangiando e l’ebbe assaggiata, il banchetto notturno che si trovava dinnanzi a lui scomparve improvvisamente. Egli restò isolato nella campagna, in un luogo a lui sconosciuto. Il mattino seguente incontrò un contadino e gli chiese dove si trovassero. Il contadino gli rispose: “alle porte di Benevento”.

Ponte Janara

Il luogo prediletto per prendere il volo era il Ponte Janara, costruito sopra il Torrente Janara (San Lupo). Il corso d’acqua nei secoli ha scavato una profonda fenditura nelle rocce. Le due rive scoscese sono dette “Coste Janare”. Il ponte fu fatto saltare in aria dai Tedeschi in ritirata durante la Seconda Guerra Mondiale ma fu successivamente ricostruito. In fondo alle coste Janara, si trova un grande masso sotto il quale l’acqua che scorre ha creato un piccolo lago. In questo lago si creano inaspettatamente dei gorghi che risucchiano tutto ciò che si trova in acqua. Questo vortice poi scompare improvvisamente, così come è apparso. Il suo nome è “r’ wurv d’ ‘r nfiern”, cioè il “gorgo dell’inferno” e secondo la tradizione esso sarebbe un passaggio attraverso il quale si può discendere agli Inferi, come l’Averno.

Intorno a questo luogo ci sono numerose leggende, infatti sembrerebbe che proprio sulle rive di questo fiume si sarebbero verificati i famosi sabati. Dopo una notte di riti sabbatici, all’alba fu trovato un neonato, successivamente adottato da una coppia che non aveva figli. Cresciuta, è diventata una bellissima ragazza, corteggiata da numerosi uomini, incluso un uomo molto più grande di lei, che la ragazza ha rifiutato. L’uomo arrabbiato per vendetta, comincio a dire nel paese che aveva visto la ragazza eseguire pratiche demoniache. La gente cominciò ad avere paura, cospirò per gettarlo dal ponte delle streghe, la ragazza annegò e il suo corpo non fu mai trovato. Dopo qualche mese molti cittadini giurarono di aver visto la ragazza ballare nuda vicino alla riva del ruscello e, se qualcuno avesse cercato di avvicinarsi, la ragazza si sarebbe tuffata nelle acque in via di estinzione.

Il Noce

L’ubicazione del noce di Benevento è controversa, si suppone sia quella dello Stretto di Barba, una gola che si incontra sulla strada per Avellino più precisamente ad Altavilla Irpina costituiva un passaggio obbligato tra Benevento ed Avellino: vi passava la strada di collegamento fra i due capoluoghi, fu assorbita dalla Statale 88, definita la Strada Stregata. Al km 54 infatti, proprio nel territorio di Altavilla, si sono avute continue interruzioni, almeno in tre diversi periodi: qui i misteri dello Stretto di Barba affiorano dalla folta vegetazione bagnata dal fiume Sabato. Era questo il luogo dove si radunavano le Streghe per celebrare i loro riti magici. Secondo altri ancora in una località chiamata “Voto” (poiché i Longobardi sotto il noce facevano dei voti o li scioglievano). La leggenda del noce di Benevento risale al VII sec. d.C. Si narra che i Longobardi, pur essendo stati convertiti al cristianesimo, continuavano a conservare delle usanze pagane e ad adorare idoli che facevano parte del loro bagaglio di tradizioni ataviche, erano soliti celebrare un rito guerriero propiziatorio in onore di Wothan, padre degli dèi. In particolare si racconta che adorassero la Vipera, sia in forma di idolo d’oro, che serbavano nelle proprie abitazioni, sia appendendo un serpente morto ad un albero: in questo caso, i Longobardi passavano sotto il serpente morto e gli toccavano la testa come segno di deferenza. Secondo alcuni la Vipera che essi adoravano, aveva due teste, secondo altri era alata.


Janare intorno al Noce di Benevento


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