IUCUNDUS LIVIAE DRUSI CAESARIS, F(ilius) GRIPHY ET VITALIS.
IN QUARTUM ANNUM SURGENS COMPRENSUS DEPRIMOR ANNUM,
CUM POSSEM MATRI DULCIS ET ESSE PATRI, 
ERIPUIT ME SAGA MANUS CRUDELIS; UBIQUE 
CUM MANET IN TERRIS ET NOCIT ARTE SUA, 
VOS, VESTROS NATOS CONCUSTODITE, PARENTES
NI DOLOR IN TOTO PECTORE FINIS EAT.


Iucundus, di Druso Cesare e  di Livia, figlio di Gryphi e Vitalis.
Affacciandomi al quarto anno di vita sono stato rapito e ucciso,
quando avrei potuto essere la gioia di mia madre e mio padre.
Mi ha strappato via la mano crudele di una strega;
poiché si trova dappertutto sulla terra e nuoce con la sua arte,
voi, genitori, custodite i vostri bambini
affinché il dolore non invada il vostro cuore e vi rimanga.


(CIL VI, 3, 19747)

Agli albori della civiltà romana, dalla fondazione della città, fino alla metà dell’età repubblicana, il termine “mago” secondo la nostra accezione classica era sconosciuto, ma con l’ampliamento dei territori conquistati, Roma acquisì nuove tradizioni. Gli antichi romani non annientavano i culti dei nuovi popoli perchè essi rappresentavano la continuità della Repubblica romana e dell’Impero. I nuovi flussi di persone, all’interno del nuovo Stato, diedero vita al termine “magus” (nel corso del I secolo a.C.) ad indicare coloro che praticavano le arti magiche.

I maghi trattavano nozioni mediche e religiose, facendo fiore metodi per propiziare la nascita di un figlio, oppure venivano esercitati dei riti per mantenere un nascituro, o la madre che lo aveva partorito, in vita, dato che la mortalità durante il parto, sia del figlio appena nato che della madre era molto alta. Filtri d’amore, pozioni per lenire il dolore o riti per attirare la fortuna erano alcuni degli equilibri sul quale si interrogavano per creare magie apposite. Dall’antica roma, all’inquisizione ad oggi, queste creature emblematiche hanno vissuto accanto alla gente comune e, spesso, irriconoscibili da quest’ultime.

ANEDDOTI

Due aneddoti in particolare ci fanno riflettere su come funzionava all’epoca il meccanismo della magia e della stregoneria nell’antica Roma.

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John Hamilton Mortimer – Sextus Pompeius consulting Erichtho before the Battle of Pharsalia

Famoso fu il caso di tre ricche matrone romane, da poco tempo rimaste vedove che vennero scoperte mentre mescolavano liquidi misteriosi all’interno di una grossa pentola. Interrogate sugli ingredienti che stavano utilizzando, le tre donne si rifiutarono di approfondire l’argomento, ragion per cui vennero condannate a trangugiare ciò che stavano preparando. Le tre matrone romane morirono da li a pochi minuti, avvelenate dal loro stesso composto e questo avvenimento, tramandatoci da ignoti dell’epoca, destò molto scalpore fra la popolazione, attirando di conseguenza l’opinione pubblica sull’espandersi di tale fenomeno.

Un altro aneddoto lo racconta Orazio, svelandoci i torbidi risvolti che riguardavano i rapimenti dei bambini in tenera età, purtroppo molto  frequenti,  utilizzati per barbari rituali magici:

“Il bambino ancora impubere, spogliato delle sue insegne di libero, avrebbe intenerito perfino il cuore crudele dei Traci. […] Così il bambino, seppellito nella fossa con il volto scoperto, come i nuotatori che emergono dall’acqua soltanto con il mento, morirà lentamente, davanti allo spettacolo di piatti carichi di cibi spesse volte cambiati. E quando gli occhi fissi sul nutrimento negato si saranno chiusi per sempre, il midollo e il fegato disseccati del bambino diventeranno un filtro d’amore.”

Un altro terribile aneddoto a conferma di quello appena riportato, è tornato alla luce con un epitaffio trascritto sopra ad una stele funeraria, che recita come segue:

“Giocondo, figlio di Grifo e di Vitale. Mi avviavo verso il quarto anno, ma sono sotto terra, mentre avrei potuto fare la gioia di mio padre e di mia madre. Una strega crudele mi ha tolto la vita. E’ ancora sulla terra, lei, e pratica ancora i suoi pericolosi artifizi. Voi, genitori, custodite bene i vostri bambini, se non volete avere il cuore trapassato dalla disperazione”.

Canidia o Sagana erano i nomi delle streghe più consociute dell’epoca.

LA DIVINAZIONE

La divinazione avveniva per mezzo del volo degli uccelli, chiamata “Auspicium” da “Aves Spicium”, cioè osservazione degli uccelli, in particolare la zona a nord est era considerata ottima, sud est discreta, sud ovest non propizia, mentre  la zona a nord ovest, essendo considerata la zona degli Inferi, era di pessimo auspicio. Poi c’erano gli Aruspici, indovini che erano soliti esaminare le viscere delle vittime sacrificali, in particolare il fegato, per trarne segni divinatori.

Molte erano poi le superstizioni che guidavano in molte circostanze l’intera giornata di un abitante dell’antica Roma. Subito al mattino appena svegli si faceva estremamente attenzione a poggiare a terra per primo il piede destro nello scendere dal letto, piede destro che in seguito veniva utilizzato per primo anche per varcare la soglia di casa quando si usciva, questo perchè per tradizione, tutto ciò che stava a destra era indice di protezione degli Dei. Vi erano poi segnali ben precisi che venivano considerati nefasti e di cattivo auspicio, come ad esempio udire lo squittire dei topi quando si camminava per i vicoli della città, oppure l’improvvisa rottura di una trave nella propria abitazione, e ancora, se un cane nero si introduceva in casa veniva considerato un segno di grandissima sventura, per arrivare poi al grande classico, come rovesciare sulla tavola il vino o il sale. Era buona norma, fare attenzione a non far cadere nulla a terra, oppure evitare di starnutire, sperando poi durante il sonno notturno di non fare sogni infausti. Quando cadeva un fulmine durante un temporale, era buon uso emettere un fischio per esorcizzare il rischio di sfortuna.

Vi sono poi una serie di curiosità che gli antichi romani ci hanno lasciato in eredità come ad esempio la sfortuna legata al numero 17. Il numero 17 in numeri romani si scriveva XVII, e anagrammandolo potrebbe essere letto “VIXI”, cioè “vissi”, ho vissuto, al passato e non nel tempo presente.

Un’altra usanza è quella di portare in braccio la sposa oltre la porta d’ingresso della nuova abitazione. Anche nell’antica Roma avveniva la stessa cosa, questo perchè se la sposa fosse inciampata nell’entrare nella nuova dimora sarebbe stato considerato un avvenimento incredibilmente negativo.

Per tutelarsi da tali sventure vi erano diversi amuleti in pietra o in metallo, e venivano indossati come ornamenti o gioielli, in particolare come collane (Bulla), braccialetti e anelli. Molto diffuse erano le lunule, pendagli a forma di mezza luna, vi erano poi ancora i Crepundia, medaglioni a sonagli di varie forme che di solito venivano messi al collo dei bambini per tenere lontano gli spiriti maligni  con il suono delle piccole pietre in essi contenute.

MOSTRI NELL’ANTICA ROMA

Nelle epigrafi e nei brani degli antichi autori ritroviamo le testimonianze di incontri con delle streghe malvagie, dei vampiri assetati di sangue e dei voraci lupi mannari.

l piccolo Iucundus, di neanche quattro anni, è una delle tante vittime, bambini e infanti soprattutto, che i Romani attribuivano all’arte oscura delle streghe. Il nome per indicare queste donne, solitamente rappresentate come brutte e vecchie, è quello indicato nell’iscrizione dal termine saga. È in particolare un brano di Cicerone (De Divinatione I, 65) che spiega l’ accezione di questo nome derivato dal verbo sagire con il significato di “avere buon fiuto”, e quindi riferisce che le sagae sono così chiamate perché pretendono di sapere molto e in anticipo (da cui il verbo pre-sagire come “anticipare il futuro”). Ma i nomi per indicare le streghe a Roma sono diversi e indicano, ognuno, sia la strega in generale, sia una particolare forma di stregoneria: oltre a saga, che indica la specifica qualità di indovina, troviamo venefica per la particolare arte di avvelenatrice, anus indica la caratteristica comune a tutte le streghe di essere “vecchie”, e infine troviamo il termine striga, da cui deriva il nome moderno di strega, e del cui significato parleremo tra poco.
Per meglio comprendere le caratteristiche di queste streghe della Roma antica un brano di Ovidio (Amores I, 8) è quanto mai illuminante: parla infatti della strega Dipsas (qui indicata come Dipsas anus, cioè la vecchia Dipsas), sempre ubriaca, conoscitrice di innumerevoli incantesimi con i quali riesce a far rifluire i fiumi alla sorgente, esperta di erbe, capace di far annuvolare il cielo e di far colorare di rosso sangue le stelle e la luna. Si trasforma di notte, il suo corpo si ricopre di piume e vola nell’ombra, richiama i morti dalle loro tombe e profana i letti delle famiglie. Qui ci sono alcuni elementi che ricorrono sempre nella descrizione delle streghe nell’antica Roma: innanzitutto sono sempre straniere, come indica il nome, non romane, e agiscono sempre nei cimiteri, al di fuori della città, alla ricerca di erbe per le loro pozioni e di tombe da profanare. Infine per la sua capacità  di mutare forma e di trasformarsi in un uccello durante la notte, la nostra Dipsas può essere definita una striga. Questo termine, con cui si designano le streghe che hanno la capacità di trasformarsi in uccelli, deriva forse dal verbo stridere, per il verso che fanno nella notte, e in latino strix è il termine con cui si designano i rapaci notturni. Ma queste strigae non si limitavano soltanto a mutare forma e a volare nell’oscurità della notte, infatti erano a caccia di bambini a cui succhiare il sangue e a cui strappare le interiora con i loro artigli. Il termine strix proprio per questi motivi sui dizionari di latino è spesso tradotto anche con “vampiro”. Siamo quindi di fronte a delle streghe-vampiro che succhiano il sangue dei bambini e per questo erano temute dai genitori e dalle nutrici a cui erano affidati i piccoli. L’iscrizione prima riportata del piccolo Iucundus ne è una prova evidente. Ma per meglio conoscere questi esseri muta forma e succhia sangue che si aggiravano nelle notti dell’antica Roma, è utile leggere ancora un passo di Ovidio (Fasti, VI, 131-168), dove questi rapaci notturni sono descritti dettagliatamente:


John William Waterhouse – Le Cercle Magique

Vi sono ingordi uccelli, non quelli che rubavano il cibo dalla bocca di Fineo [le Arpie nda], ma da essi deriva la loro razza: grossa testa, occhi sbarrati, rostri adatti alla rapina, penne grigiastre, unghie munite di uncino; volano di notte e cercano infanti che non hanno accanto la nutrice, li rapiscono dalle loro culle e ne straziano i corpi; si dice che coi rostri strappino le viscere dei lattanti, e bevano il loro sangue sino a riempirsi il gozzo. Hanno il nome di Strigi [est illis strigibus nomem]: origine di questo appellativo è il fatto che di notte sogliono stridere orrendamente. Sia che nascano dunque uccelli, sia che lo diventino per incantesimo, e null’altro siano che vecchie tramutate in volatili da una nenia della Marsica, vennero al letto di Proca…

Proca, nato da appena cinque giorni, è quello che sarà il futuro re di Alba. Le Strigi gli hanno succhiato il sangue dal petto e hanno fatto scolorire il suo piccolo volto, ma non è ancora in fin di vita e viene salvato da Crane (o Carna), una ninfa che viveva nel lucus Helerius, un bosco sacro sulle rive del Tevere probabilmente nella zona poi occupata dal Foro Boario, a cui il dio Giano aveva dato il potere di proteggere le porte delle case. Così interviene chiamata dalla nutrice di Proca spaventata, e, attraverso un rituale, ci illustra il modo per scacciare questi esseri mostruosi:

Venne alla culla; la madre e il padre piangevano: “Trattenete le vostre lacrime”, disse, “lo curerò io stessa”. Subito con una fronda di corbezzolo tocca tre volte – una dopo l’altra – la porta, e tre volte con la fronda di corbezzolo fa segni sulla soglia, cosparge di acqua l’ingresso – e l’acqua conteneva un filtro magico – e prende viscere crude d’una porcella di due mesi, dicendo: “Uccelli notturni, risparmiate le viscere infantili: in cambio di un piccolo fanciullo cade una piccola vittima. Cuore per cuore, vi prego, e fibre per fibre prendete: codesta vita vi offriamo in cambio di una vita migliore”. Compiuto il sacrificio, dispose le viscere tagliate all’aria aperta, e proibì di guardarle a coloro che assistevano al rito: e dove una piccola finestra illuminava la camera, dispose il ramo di Giano, che era di biancospino. È fama che dopo quel momento gli uccelli non violarono più la culla, e sulle gote del bambino tornò il colore di prima.

Queste strigae possono essere considerate le antenate dei vampiri. Così come i vampiri “moderni” temono l’aglio e i paletti di legno conficcati nel cuore, le strigae possono essere tenute a bada con corbezzolo e biancospino usati sulle porte e sulle finestre delle case. Ovviamente queste creature sono state create dagli antichi per spiegare le morti dei bambini e dei neonati che nel mondo antico avvenivano assai frequentemente. Lo stesso avveniva in Grecia dove figure analoghe erano state create e credute vere per spaventare i bambini stessi: è il caso di Mormò,donna di Corinto trasformata in mostro dopo che aveva divorato i propri figli e che deriva il proprio nome da mòrmoros, paura, e che terrorizzava i piccoli “mormorando” come un gorgoglio il proprio nome.
Un’altra testimonianza relative alle streghe di Roma la troviamo in un passo di Plinio (Naturalis Historia, XI, 232) dove ad essere identificate con le streghe sono a volte anche le nutrici stesse che con il latte del loro seno avvelenano i bambini appena nati.
Petronio (Satyricon, 63) riporta invece un altro episodio relativo alle strigae: durante il banchetto di Trimalcione si raccontano delle storie di terrore, narrate come vere dai commensali, e una di queste storie riguarda proprio un assalto delle streghe – vampiro al corpo di un bambino morto. Conosciamo così altre caratteristiche terribili di questi mostri, narrate dallo stesso Trimalcione:

Quando avevo ancora i capelli lunghi […] morì il ragazzino del nostro padrone […]. La sua infelice madre lo piangeva vicino a me e ad altri […]. Di colpo cominciarono a stridere le streghe che sembrava di sentire un cane quando insegue una lepre. Avevamo con noi […] un uomo della Cappadocia, alto, audacissimo e pieno di forza: uno che avrebbe potuto sollevare un bue infuriato. Costui, sguainata la spada con gran coraggio, si lanciò fuori dalla porta con la mano sinistra ben avvolta e trafisse una donna a metà corpo […]. Si udì un gemito, vi assicuro che non mento, ma di streghe non se ne videro. Il nostro gigante intanto rientrò e si gettò sul letto. Aveva il corpo coperto di lividi come se lo avessero frustato, perché certo lo aveva colpito la mano maledetta. Noi, chiusa la porta, riprendemmo la veglia; ma la madre, che abbracciava il corpo del figlio suo, si trovò tra le braccia un manichino di paglia. Non aveva più il cuore né l’intestino né altro. Le streghe avevano rapito già il fanciullo, lasciando al suo posto un bamboccio impagliato.

Qui si arricchisce la conoscenza dei poteri malefici delle streghe romane, perché si evidenzia la loro capacità di infliggere danni a chi le avesse toccate, come nel caso dello schiavo della Cappadocia e che riuscivano a rubare, non viste, tutti gli organi dei bambini lasciando al suo posto un fantoccio. Tutti questi esempi riportati rendono evidente il tipo di timore che queste creature provocavano e, a chi volesse ribattere che in fondo si trattava solo di leggende, l’epigrafe del piccolo Iucundus testimonia in maniera concreta la concezione che i romani avevano del pericolo, considerato reale, creato dalle strigae.


Tabella del V secolo in greco con la raffigurazione di una divinità, forse la dea greca Ecate, conservata presso il Museo civico archeologico (Bologna)

A Roma i lupi mannari erano conosciuti con il nome di versipelles, ovvero muta forma o muta pelle (versipelles in questo senso erano quindi anche le strigae). Ma nei casi riportati dalla letteratura vediamo come la trasformazione sia reversibile, si può cioè passare da uomo a lupo e poi da lupo a uomo. Un caso è narrato da Plinio (Naturalis Historia, VIII, 81) che riporta una storia ambientata sempre in Arcadia:

Evanthes, inter auctores Graeciae non spretus, scribit Arcadas tradere ex gente Anthi cuiusdam sorte familiae lectum ad stagnum quoddam regionis eius duci vestituque in quercu suspenso tranare atque abire in deserta transfigurarique in lupum et cum ceteris eiusdem generis congregari per annos VIIII. Quo in tempore si homine se abstinuerit, reverti ad idem stagnum et, cum tranaverit, effigiem recipere, ad pristinum habitum addito novem annorum senio. Id quoque adicit, eandem recipere vestem.
(secondo il greco Evante un membro della famiglia di un tale Anto in Arcadia, dopo essere stato estratto a sorte, veniva condotto presso uno stagno, qui appendeva i propri abiti ad una quercia, traversava a nuoto lo stagno, raggiungeva luoghi inabitati e si trasformava in lupo. Egli restava tra gli altri lupi per nove anni, trascorsi i quali, nel caso in cui non avesse toccato carne umana, faceva ritorno allo stagno e alla sua vita.)

Altra fonte sui lupi mannari è, strano a dirsi, Virgilio, che descrive un caso di licantropia nelle Bucoliche (VIII, 95-99):

Has herbas atque haec Ponto mihi lecta venena
ipse dedit Moeris (nascuntur pluruma Ponto);
his ego saepe lupum fieri et se condere silvis
Moerim, saepe animas imis excire sepulcris,
atque satas alio vidi traducere messis.

(Queste erbe e questi veleni raccolti nel Ponto Meri in persona mi ha dato: nel Ponto ne nascono molti. Vidi Meri grazie ad essi trasformarsi spesso in lupo e nascondersi nelle selve, spesso lo vidi evocare le anime dai profondi sepolcri e trasportare le messi da un campo all’altro.)

Ancora una testimonianza sui lupi mannari viene da Petronio (Satyricon, 62), in un passo subito precedente quello già citato per le streghe. Siamo sempre al banchetto di Trimalcione e si raccontano storie spaventose, a parlare è Nicerote:

Persuasi un soldato nostro ospite, forte come un orco ad accompagnarmi […]. Capitati in mezzo a un cimitero, il mio compagno si mise a farla tra i cippi, mentre io canticchiavo per farmi coraggio e andavo contando le tombe. Dopo un po’, voltandomi, vidi che il soldato si era spogliato e aveva lasciato gli abiti presso il margine della strada. Con l’animo in gola stetti a guardarlo: pisciando tracciava un cerchio intorno ai suoi vestiti e subito si trasformava in lupo […]. Incominciò ad ululare e prese la fuga verso i boschi. Non capivo più dove fossi, e tanto per fare qualcosa mi avvicinai ai suoi vestiti: erano diventati di pietra! Chi non sarebbe morto di paura? Impugnai la spada e menando fendenti, tra uno scongiuro e l’altro, arrivai a casa della mia amica. Entrai che parevo un cadavere […]. Quando a fatica mi ripresi, la mia Melissa cominciò a stupirsi per il fatto che andassi in giro a quelle ore. “Se tu fossi arrivato prima”, disse, “almeno ci avresti aiutato: poco fa è entrato nel podere un lupo e come un macellaio ha cavato sangue a tutte le nostre bestie. Ma non l’ha fatta franca, anche se è fuggito, perché un nostro schiavo gli ha trafitto il collo con una lancia” […]. Non appena venne chiaro, fuggii a casa […] passando da quel punto dove le vesti del soldato erano diventate di pietra, non trovai altro che sangue. Giunto a casa vidi che il mio soldato giaceva stravaccato nel letto come un bue, e che il medico gli stava curando una ferita al collo. Capii che si trattava di un lupo mannaro [intellexi illum versipellem esse]; e ti assicuro che non sarei più riuscito a mangiar pane con lui, neppure se tu mi avessi ucciso.

Dai passi citati possiamo vedere le caratteristiche principali dei lupi mannari antichi e notare le differenze con i licantropi moderni. Innanzitutto la trasformazione non viene scatenata dalle notti di luna piena come saremmo soliti aspettarci, ma, secondo le varie versioni, o da pozioni di erbe particolari, come tramanda Virgilio, oppure dal contatto con le tombe o dal trovarsi in un cimitero, come nel caso del racconto di Petronio. Infine in Petronio troviamo il nome con cui questi esseri venivano chiamati: versipelles, cioè muta pelle, cambia pelle o muta forma. Traspare inoltre il fatto che i personaggi capaci di mutare in lupo siano una sorta di stregoni o maghi, come ricorda appunto Virgilio nel caso di Meri, quest’ultimo capace di creare pozioni con erbe particolari per la trasfigurazione, oppure capace, nello stesso tempo, di evocare le anime dei morti e infondersi una forza tale da spostare da solo i raccolti dei campi agricoli. L’elemento magico si intravede anche nel soldato di Petronio che si trasforma nel cimitero, ma solo dopo aver compiuto una specie di rito con l’uso della propria urina attorno ai suoi vestiti che diventano di pietra. Quindi questi lupi mannari possono essere paragonati per i loro poteri alle strigae (versipelles anch’esse) e alle sagae per la loro capacità di preparare pozioni ed evocare i morti. L’unica differenza evidente è che i lupi mannari, almeno per le fonti che ci sono rimaste, sono tutti uomini.
Possiamo trovare a Roma una festività che si concentra intorno alla figura dell’uomo – lupo. Si tratta dei Lupercalia, festeggiata ogni 15 di febbraio presso il Lupercale, la mitica grotta dove la lupa allattò i gemelli fondatori di Roma, Romolo e Remo. Questo santuario era dedicato a Fauno Luperco, cioè Fauno – Lupo, una divinità da placare e onorare attraverso un rituale che comprendeva l’uso di sangue e latte e il sacrificio di un cane, e che consentiva di proteggere dai lupi la prima città sorta sul Palatino. I sacerdoti che svolgevano il rituale, i Luperci, erano infatti considerati una specie di uomini–lupo e, dopo aver svolto il sacrificio nella grotta, dovevano correre, nudi, intorno al Palatino, come a creare con la loro corsa una barriera di protezione. Lupi mannari e streghe si identificano in un qual modo come un’unico essere, capace di compiere trasformazioni e atti crudeli.

Negli “Epodi” e nelle “Satire”, il poeta Orazio ci descrive Canidia, vecchia oscena che profana tombe, rapisce, uccide, avvelena, tortura. Nella Satira VIII (tratta dal I libro dei Sermones) essa si inoltra nei giardini di Mecenate, dilania un’ agnella con i denti e invoca i morti, ma sarà messa in fuga con la sua socia da un tronco di fico trasformato da un abile falegname in una statua del dio Priapo, che emetterà un potente peto.  Sarà la statua del dio che racconterà, in prima persona, l’ oscena visione e la beffa finale.

Ecco la descrizione di Canidia e della sua compagna Sàgana.

Io, con questi occhi, ho visto Canidia

aggirarsi, la veste nera cinta in vita,

piedi nudi, capelli scarmigliati,

e insieme a Sàgana maggiore urlare al vento:

orribili le rendeva il pallore.

Eccole scavare con le unghie la terra,

dilaniare a morsi un’ agnella nera:

il sangue fu raccolto in una fossa

per evocare dagli abissi

gli spiriti dei Mani

e ottenerne responsi.

Con sé avevano un fantoccio di lana

ed un altro di cera:

piú grande quello di lana perché potesse

infliggere la pena all’altro,

e quello di cera in atteggiamento supplice,

perché sa di dover morire

come accade a uno schiavo.

Il rituale sacrificale si svolge sull’Esquilino e non è un caso che Orazio abbia scelto questa zona per rappresentarvi la scena, perché ai tempi di Orazio vi sorgeva la lussuosa villa dell’ amico e consigliere di Ottaviano Augusto, Mecenate, e il Ninfeo degli Horti Liciniani. Tuttavia secoli prima l’area era semi-disabitata e circondata solo in parte dalle Mura Serviane. Il resto era aperta campagna, fittamente costellata di tombe, ma più spesso di fosse comuni, in cui venivano gettati i corpi di plebei, vagabondi e  criminali, i cui cadaveri spesso venivano disseppelliti da fattucchiere e negromanti per farne attori dei loro nefandi riti magici.

Nel testo oraziano Canidia e Sagana evocano Ecate e Tesifone, facendo comparire serpenti e cagne infernali, uno spettacolo tanto spaventoso che perfino la luna cerca di nascondersi dietro i grandi sepolcri per evitare di assistere a tali orrori.

Mentre, però, la Canidia dell’ ottava satira appare come vecchia facile allo spavento, nel V epodo il poeta illustra una scena dai connotati terribili e macabri, in cui la vittima di Canidia, un fanciullo tenero ed ancora acerbo, prega la maliarda di non fargli del male. Le sue parole avrebbero “intenerito/l’empio cuore dei Traci” ma Canidia non ha pietà di lui. Lo rapirà e lo torturerà a morte. Il personaggio oraziano risulta essere più vicino all’idea di Stryx della Canidia della satira.

Canidia allora, che fra i capelli arruffati

ha nodi guizzanti di vipere,

ordina che su fiamme della Còlchide

siano arsi cipressi funebri,

caprifichi divelti dai sepolcri,

uova di rospo viscido

sporche di sangue, penne di civetta,

erbe che vengono da Iolco

o dall’Iberia, patria di veleni, e ossa

strappate ai denti di una cagna.

Sàgana intanto, discinta e con i capelli

irti come riccio di mare

o cinghiale in fuga, sparge in tutta la casa

acqua del lago Averno.

Veia, che non è distolta da alcun rimorso,

scava a colpi di zappa

la terra, gemendo per la fatica:

qui seppelliranno il fanciullo

con solo il capo che affiora, come chi nuota

fuori dell’acqua ha solo il mento,

perché davanti ai cibi sempre nuovi e freschi

abbia a morire lentamente:

col midollo estratto e il fegato inaridito

si farà cosí un filtro d’amore,

quando le sue pupille sbarrate sul cibo

vietato si saranno spente.

Ma la stryx più famosa ed impressionante della letteratura latina è Eritto, creata dal genio allucinato del grande poeta Lucano nella sua “Pharsalia”. Il racconto relativo alla “maga”, concentrato emblematicamente nel VI libro (i sesti libri sono da sempre rappresentativi di viaggi nell’ oltretomba) prende le mosse dalla stryx Eritto, consultata da Sesto Pompeo per la divinazione del futuro.

La maga, descritta con compiaciuto gusto del macabro, compie rituali nefandi, come la violazione dei cadaveri a cui strappa gli occhi gelidi, o di cui fruga le viscere, strappando, in un  climax orroroso, i feti dai ventri ancora caldi delle madri. Infine evoca dagli Inferi l’ombra di un povero soldato morto, descritto efficacemente mentre osserva il suo corpo straziato nella paura di dovervi rientrare. Sarà proprio il cadavere resuscitato provvisoriamente alla vita con un rito considerato empio dalla stessa Eritto che, in maniera antitetica a ciò che aveva fatto Enea nell’ “Eneide” virgiliana e trasformando dunque la catabasi in distorta anabasi, profetizzerà la catastrofe per Roma. Uno dei passaggi più terribili e patetici del libro è proprio l’apparizione del povero soldato, vittima innocente dei nefandi riti di Eritto:

Detto ciò, non appena solleva il capo e la bocca schiumante,

vede ritta in piedi l’ombra del cadavere disteso,

che teme le membra esanimi e le odiate catene

dell’ antico carcere: ha il terrore di tornare  nel petto squarciato,

nelle viscere e nelle fibre spezzate dalla ferita letale.

Le streghe romane sono depositarie di tre tipi di magia:

  • Magia del gesto: a Roma era vietato andare per la campagna facendo ruotare i fusi, perché il loro moto avrebbe impedito agli steli di crescere dritto, non si potevano incrociare le braccia o le gambe nelle riunioni pubbliche.

Tenere le dita incrociate a pettine presso una donna incinta o mentre si somministrano medicine a qualcuno è maleficio (Plinio, Naturalis Historia, XXVIII 17,59).

  • Magia della parola: formulata attraverso un carmen (formula) o cantatio (incantesimo):

Circa i rimedi tratti dall’uomo, la prima e più dibattuta questione, concerne il potere che avrebbero certe parole e formule… singolarmente, ma in generale tutti vi prestano fede, seppur inconsapevolmente, in ogni momento (ibidem).

  • Magia dei pocula, cioè sostanze utili anche tratte dal corpo umano, soprattutto femminile:

Innanzitutto le donne esponendosi nude, nel periodo delle mestruazioni, di fronte ai lampi, allontanano la grandine e le bufere. Così volgono altrove la violenza dei fenomeni atmosferici; nella navigazione, poi, cacciano le tempeste anche senza essere mestruale (ivi, XXVII 23,77).

I MALA CARMINA: LE MALEDIZIONI

Nella cultura romana, la maledizione è una pratica magica, legata alla magia della parola e dei pocula: il maleficum viene praticato attraverso la fattura. Per rovinare la salute di un nemico si trafigge con un ago una statuina di cera con sopra inciso il suo nome; per legare la lingua di un avversario in tribunale, si inchioda, come surrogato simbolico, la lingua di un gallo.

Io ti invoco Mapon arueriiatis per la potenza degli dei di sotto; che tu li … e che tu li torturi, per la magia degli dei inferi: [dovete colpire] Caius Lucius Florus Nigrinus, l’accusatore, Aemilius Paterinus, Claudius Legitumus, Caelius Pelignus, Claudius Pelignus, Marcius, Victorinus, Asiaticus figlio di Aθθedillos, e tutti coloro che che pronunciarono quello spergiuro. In quanto a colui che chiese il giuramento, che gli siano deformate tutte le ossa lunghe. Cieco lo voglio. Con questo egli sarà a noi dinnanzi a voi [senso della frase oscuro]. Che tu … alla mia destra [ripetuto 3 volte].

Tabula defixionis

Quanto riportato, si trova su una curiosa lamina plumbea del II secolo recante una invocazione ad un Demone (forse Abraxas) per rendere inabili i cavalli di una scuderia rivale. Defixio era un termine latino che in origine significava “piantare un chiodo” e per estensione divenne l’azione di recare danno a qualcuno attraverso un sostituto, quale appunto una tavoletta di piombo. Dopo essere state incise, le tavole venivano inviate alle divinità infernale, deponendole in un luogo sacro o in luoghi magici come pozzi o paludi. Molto ricercati dagli operatori magici sono i resti umani e tutto ciò che ha avuto relazione con la morte: scavano le fossa, succhiano le carni putridescenti, infrangono quello che da sempre è un tabù culturale, il rispetto del cadavere.

Curiosità

  • Per guarire il dolore alle ossa la fattucchiere usavano le foglie del sambuco, per il mal di pancia le foglie di lattuga, oltre alle erbe vari unguenti erano preparati con il lardo di porco che guariva il mal di reni. La mandragola invece rientrava tra i vari prodotti universali. Si faceva grande uso dell’olio preparato con delle erbe macerate, chiamato Olio Fiorito. Ma numerosi prodotti animali erano mischiati alle erbe, al vino o all’incenso benedetto, perché la religione faceva spesso parte del rito pagano della guarigione.
  • Oltre ai vari rimedi per il corpo “le streghe” usavano anche altri riti magici per stregare le persone, per fare innamorare un pretendente, rompere un’unione, o vendicarsi di un nemico fino a portarlo alla morte. Questi sortilegi non erano ben visti dalle autorità, spesso partivano delle denunce seguite da un sommario processo che finiva con una condanna a morte dell’incauta strega.
  • Le streghe erano le eredi della Maga Circe, della Sibilla e di Medea; provenivano dai quartieri più bassi e dalle classi subalterne della popolazione.
  • Alcuni documenti popolari dell’epoca menzionano l’esistenza di una Strega di nome Orsini, ma che non apparteneva alla famiglia nobile conosciuta in quell’epoca ma proveniva da Monterotondo in provincia di Roma. Dopo essere stata istruita dalla sua Maestra nell’arte della magia e della guarigione, si era decisa di cercare fortuna nella città di Roma. Dopo avere eseguito numerose guarigioni ottenendo cosi la benevolenza del popolo e anche una certa agiatezza per i numerosi compensi offerti, aveva fatto l’errore di cominciare a farsi odiare dai suoi vicini invidiosi per avere eseguito dei sortilegi e varie diavolerie delle quali incautamente si vantava senza ritegno. Quel suo atteggiamento spavaldo e pericoloso infastidii la gente che la denunciò alle autorità. La strega condannata era stata presa da un violento ed improvviso raptus e si piantò un grosso chiodo arrugginito nella gola, e nell’agonia disse al giudice, che si era presentato per ascoltare le sue ultime parole, che il Diavolo in persona era venuto per liberarla e che da morta avrebbe orribilmente tormentato il suo accusatore fino alla fine dei suoi giorni.
  • In pochi sanno che ci fu una strega dietro a molti degli efferati delitti che insanguinarono la corte Giulio Claudia. Ad assecondare ed attuare gli intrighi di Claudio, Nerone e Agrippina, ci fu lei, Locusta, che mise a disposizione delle loro ambizioni senza limiti le sue conoscenze in tema di incantesimi e avvelenamenti Sebbene la prima parte della sua vita sia avvolta nel mistero, secondo alcune fonti, la donna usata per seminare il terrore alla corte imperiale romana era nata nel I sec. d.C. in Gallia, e lì, nella sua terra, presumibilmente a contatto con i druidi celtici, conobbe i primi e fondamentali segreti della sua particolare attività. Arrivò a Roma ancora adolescente come schiava e nell’ Urbe, capitale di vizi, complotti e corruzione, fece la sua fortuna.  Aprì una bottega sul Palatino dedicandosi al commercio di pozioni e veleni. Divenne un punto di riferimento per una clientela eccellente: patrizi, senatori e le matrone romane delle famiglie più in vista. L’ imperatrice Agrippina, la tirò fuori di prigione la prima volta che ci finì, avendo intuito quanto poteva esserle utile il talento speciale di quella donna che sapeva tutto di un’ arte per lei preziosissima: il veneficio. Fu per questo suo talento e per la spietatezza con cui era capace di usarlo che Locusta entrò nella corte imperiale. Faceva concorrenza in questo ai medici di corte, perché non fu solo un’ assassina , ma anche un’ esperta  guaritrice. I servigi che le venivano più richiesti però, pare fossero quelli legati alle arti oscure. Claudio, che non era mai stato stimato a corte, considerato solo il fratello debole del brillante Germanico caduto in guerra troppo presto per salire al trono, fu colto da un improvviso malore mentre si concedeva uno dei suoi piaceri preferiti: mangiava funghi Il malore che lo stroncò non era stato altro che il frutto della grande sapienza di Locusta che, con questo suo primo assassinio imperiale, aprì la strada al regno per Nerone e per lei a una grande ricchezza e a una nuova carriera ufficiale a corte, in un ruolo che mai nessuna strega aveva ricoperto prima. Ma le cose non andarono subito lisce: dopo la morte di Claudio venne promulgato un editto che bandiva astrologi, maghi e streghe dall’ Italia, pena l’ arresto immediato. Locusta finì di nuovo in prigione, ma la sua cattività non durò al lungo: fu lo stesso Nerone, infatti, a rivolgersi a lei, per una faccenda che riteneva fosse ora di sbrigare definitivamente. Sulla sua strada al trono infatti, era rimasto ancora un ostacolo: si chiamava Britannico non aveva ancora 14 anni ed era il suo fratellastro con gli stessi suoi diritti ad ambire al titolo di Imperatore. Una presenza che dunque, per Nerone, era divenuta quanto mai ingombrante. La strega, davanti alla richiesta dell’ Imperatore rimase un po’ nel dubbio, poi però Nerone trovò l’ argomento giusto: le ventilò l’ ipotesi della totale impunità da quel momento in poi. La scelta, per Locusta, fu naturale e obbligata al tempo stesso. Preparò la sua pozione letale per stroncare il ragazzino e con quella, la strada al suo ruolo di strega imperiale. Nerone volle che la morte fosse somministrata a Britannico in pubblico, come una feroce prova di forza. Durante un banchetto il ragazzo mandò giù una bevanda letale che mise fine ai suoi giorni e alle paranoie del nuovo Imperatore. Ormai era diventata l’ avvelenatrice ufficiale di corte. L’ ultimo dei suoi veleni lo preparò proprio per l’ uomo che gli aveva dato ricchezza e potere: Nerone, deposto dai pretoriani, pensava di finire la sua vita grazie a una delle pozioni di Locusta ma alla fine la strega non avvelenò il suo ‘padrone’ che scelse una morte più scenografica. Con la fine dell’ uomo per cui aveva lavorato tanto nell’ ombra arrivò anche la morte della strega. Apuleio riportò una versione della sua morte secondo cui, dopo avere sfilato in catene per tutta Roma, la donna fu fatta stuprare da una giraffa ammaestrata e poi dilaniata nel circo dalle belve feroci.

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